CopertinaNino Perrone / BiografiaNino Perrone / Note critiche
6 Gennaio 2021 Redazione A&S 816
La sorprendente abilità nell’arte pittorica di Nino Perrone consiste nel saper coniugare lo stile classico tradizionale al Surrealismo più spontaneo e fantasioso. I temi spettacolari e le variazioni virtuosistiche seguono un vertiginoso percorso di aderenza alla realtà, nel trionfo dell’illusione. L’impressione, che scaturisce da Perrone è, che con il suo mestiere possa riuscire a raffigurare qualunque cosa, a fare di tutto tramite la pittura. Con ricca sapienza rappresentativa si cimenta con il pennello, padroneggiandolo al punto tale da immaginarlo mentre realizza le sue visioni ad occhi chiusi, quasi come un rabdomante. Nei quadri crea voli pindarici misurati sull’attendibilità dei dati percettivi, che le pennellate riconducono a rifiniture precise e dettagliate, nella consapevole adesione sentimentale all’immagine riprodotta. Emerge l’intento di rievocare, come in uno specchio, un’esauriente proiezione di esperienze personali vissute, nel desiderio di percorrere i sentieri emozionali delle avventure esistenziali e fantastiche. All’inganno dell’occhio si conforma la sua favola di linee e di colori, nella quale è interessante e piacevole soffermarsi ad apprezzare l’evoluzione narrativa originata dallo straordinario potere del racconto e dall’intrattenimento immaginario, evocato nelle tele. Non la storia, non la citazione emulativa di maestri antichi, ma bensì la prorompente ed esaltante fantascienza onirica, con la quale gioca, sogna, inventa effetti speciali dove ogni elemento sta al posto giusto, in un ritmo implacabile ed esatto. La sua poetica artistica si depura da ogni corpo estraneo, stupendo e chiamando l’applauso. La complessa e articolata ricerca di Perrone lo rende un coraggioso combattente sul campo dell’arte contemporanea, al quale bisogna meritatamente attribuire l’onore delle armi.
I turbamenti dell’animo di Nino Perrone agiscono all’unisono in bilico tra colore e materia, come se non ci fosse distinzione tra la ragione e l’esigenza dello spirito. I suoi temi cari differiscono da vedute di paesaggi a visione interne della propria esistenza, ma si conformano sotto un unico tratto. Il gesto è marcato ad evidenziare una rivoluzione plastica dello spazio e allo stesso modo nella tela entra la componente del tempo. L’osservatore non rimane estraneo e mero ammiratore, diventa parte integrante del quadro e si identifica nelle pennellate virgolettate fino a diventare parte di esse. Si vive un’esperienza oltre i confini e i minuti scorrono più veloci all’interno della cornice laddove l’anima fuoriesce e viene invasa da forti sentimenti. Ad un apparente tumulto e caos nella superficie, dove l’occhio vive un momento di perdizione e smarrimento, si giunge poi ad un’armonia in ogni piccolo frammento, vissuto e trattato nella stessa maniera. La melodia cambia registro ed echeggia nell’aria il Notturno di Chopin. I contrasti cromatici generano energie vibranti, le tonalità calde si inseriscono con decisione tra toni freddi, a volte l’inverso, procurando disparate emozioni. Ogni singolo colpo di spatola e di pennello ha vita propria e allo stesso tempo si unisce agli altri: i segni sono matrici generatrici che danno vita a spirali concentriche in un baluginare di graffi e picchiettate di vernice. Perrone dipinge quello che gli provoca piacere alla vista, tutto è come un’epifania rivelatrice dei suoi più reconditi ricordi. I quadri rimandano ai tempi in cui l’elemento naturale non era ancora incontaminato da quello artificiale. Nei campi pugliesi, terra d’origine, prendono vita le spighe di grano che sembrano essere spazzate via dal vento con una forza incessante. Si nasconde così la fragilità e la sensibilità della mano del pittore sotto un segno materico e deciso; il desiderio di condividere con risolutezza, tenacia e coraggio la propria indole. Non viene inoltre a mancare l’impegno di coltivare con passione la magnificenza degli aspetti paesaggistici. La sua visione della vita può essere ripresa da Tolstoj, nella quale il fine ultimo della nostra esistenza è ricondotta allo sviluppo universale di tutto ciò che esiste: «Se medito mentre contemplo la natura, percepisco che ogni cosa nella natura è in un costante processo di sviluppo, e ognuna delle parti costituenti la natura sta inconsciamente contribuendo allo sviluppo delle altre parti.»
La produzione artistica attinge da uno studio approfondito dell’Espressionismo di fine Ottocento per giungere a quello più contemporaneo e attuale dell’Astrattismo americano del secondo dopoguerra. La prospettiva è assente e la bidimensionalità nasce dall’esperienza vissuta, una ricerca libera in un Universo puro. C’è la volontà di perdersi in un sistema remoto e il volere indagare in una realtà primogenita, laddove tutto si riconduce al creato con spontaneità e casualità. Quello che si discosta dall’indagine espressionistica è l’aggiunta del rilievo sulla superficie per la ricerca di una strada informale del gesto. Nino Perrone è il sentimento primitivo della Puglia, un’emozione che rincorre valori, principi, tradizioni ormai soffocati dalla modernità.
Per le loro opere i pittori si sono sempre ispirati alla natura, ai suoi colori, alle sue forme, ai suoi spazi, alle sue sorprese. Infatti, solo i creativi riescono a comprendere appieno la sterminata ricchezza delle creazioni della natura, che parla un linguaggio a loro comune. Ciò permette che essi percepiscano (e stavo per scrivere: sappiano) che la natura è il massimo artista esistente, realtà che io, addestrato a “colloquiare” con i creativi, ho compreso da molto tempo. Ogni volta che passo nei pressi di un fioraio, vedendo la meraviglia di tante varietà di fiori sia per forme che per accoppiamenti di colori spesso sorprendenti, mi viene spontaneo il seguente pensiero: “L’artista sovrano su tutti i creativi è la natura.” In rapporto alla pittura di Nino Perrone, avendone percorso il tragitto dagli anni Settanta ad oggi, mi sono convinto che anche lui, dopo alcune intuizioni precedenti (e mi riferisco ad alcuni fiori dipinti tra la fine degli anni Ottanta ed i primi anni Novanta, nonché a certi brani di paesaggio della fine anni Novanta) negli ultimi anni sia giunto alla stessa conclusione. Anzi, a ripercorrere certe tappe degli anni Settanta, si percepisce una sua propensione all’aniconismo, ma senza azzerare le memorie iconiche, come testimoniano lo smalto su tela Natura morta-Bottiglie del 1970, gli olii Borgata romana del 1973 e Natura morta con scorcio del 1974. E questa è la prerogativa della sua visione, come numerose opere più tarde mi confermano. In realtà Perrone ha sempre fatto dialogare l’aniconismo con l’iconico, anche nel periodo in cui il secondo dominava nella sua produzione, ora negli sfondi, com’è in Carabinieri e manifestanti (1977), il cui sfondo ha echi dell’Ensor dell’Entrata di Cristo a Bruxelles, ora nei vestiti, com’è in Donna in vestaglia (1978), dove addirittura compaiono le iterazioni cromosegniche, che sviluppano in corsivo quelle di Volatili (1975), anticipando un tipico modo di fare che nel corso di una serrata anabasi verso il suo stile maturo, che, dopo un tentativo di intimo connubio di aniconizzazione dell’iconismo, qual è Tessuti e panneggi (1979), via via corre verso quel suo tipico tratteggio cromatico che a partire da Atmosfera estiva del 1997 si agglomera con differenti soluzioni in Abissi del 1998 e nei paesaggi La Murgia e Terrae del 1999, per sbizzarrirsi in seguito nelle dinamiche di Energia immaginaria (2003), nel “fogliame” di Connessione (2004), che certo è un’astrazione delle ritmiche dell’iconico Foglie di ulivo dello stesso anno, come lo sono Perseidi del 2006 e Sementi del 2019. Tutta la pittura di Perrone s’ispira alla natura, ovvero è una personalissima traduzione pittorica di aspetti di essa, come è documentato dai suoi paesaggi e dalle sue marine degli anni Novanta, vere e proprie trasfigurazioni in ritmiche spatolate a micro-segmenti, a taches, a svirgolature, a pois cromatici, che in qualche caso convivono nella stessa opera (ed è il caso di Terra di Puglia, 2012). Con questo lessico cromosegnico Perrone talora restituisce le sue vibrazioni di fronte alla natura (Sensazioni, Campagna emotiva, 2011; Perturbazione emotiva, 2012), talaltra cerca di captare l’energia che essa sprigiona (Energia vibrante, 2012; Germogli, 2014; Energia, 2018). Le sue ritmiche interne ad alcuni aspetti della natura vanno ricercate nel regno floreale della natura (Fiori, 2018; Ortensie, 2020), ma anche nelle onde marine (Maroso, 2013; Maroso 2, 2020) e nella terra arata (Terra dissodata, 2019). Attraverso il suo diurno scrutare Perrone, pittore barese totalmente immerso nella sua Puglia, riesce a captare al di là del tempo e dello spazio le vibrazioni atmosferiche e fisiche di base, giungendo a coglierne l’anima per così dire, utilizzando la sua sapienza pittorica, perché il suo attuale linguaggio è il risultato di una sintesi, ovvero di un condensato di divisionismo, di segnismo, di gestualismo metabolizzati attraverso trasposizioni delle lezioni del Cubismo e del Futurismo. E, se del primo ha trasposto la scomposizione delle forme nel segno, del secondo ha introiettato il dinamismo, non senza qualche riverberazione di quello insito nella boccioniana linea-forza. Su tali basi si svolge ed evolve il discorso pittorico di Perrone, che ha ideato una sua stenografia pittorica per riuscire a coniugare l’aniconismo senza azzerare l’assunto iconico, ora in modalità allusive (Origini, Armonie, 2019; Uccelli, 2020), ora in strutturazioni più evidenti (Danza del gallo, 2019; Isabella Morra, poetessa di Valsinni, 2020), nelle quali in filigrana si percepisce il riferimento dichiarato nel titolo. In queste due ultime opere Perrone utilizza il suo alfabeto pittorico di segni curvilinei, molto pertinente per le piume del gallo, ma più controllato nel ritratto di Isabella Morra, con cui riesce a determinare effetti tridimensionali con un chiaroscuro cromatico giocato sui contrasti di tonalità, passando dalle più scure alle più chiare (e stavo per scrivere illuminate), già esperite nel 2019 in Fotoni, opera in cui le taches appunto si facevano luminose. Ovviamente nella ricerca della resa plastica dei soggetti in queste due opere deroga dall’horror vacui tipico di molti suoi lavori. In esse il fondo è compatto, per meglio dar risalto alle conformazioni, il che attesta ancora una volta, qualora ce ne fosse stato bisogno, la libertà espressiva dell’artista barese, libertà che gli rende possibile di attuare quei “voli” pittorici del ciclo dedicato nel 2020 al Mandorlo, che, oltre a un sottinteso omaggio al Ramo di mandorlo in fiore di Van Gogh, vuole essere ed è un inno alla primavera ed alla vita, come c’era da aspettarsi da un innamorato di quell’assoluto creatore che è la natura.
La verità nell’arte è cosa ben difficile da definire, forse ancor più complicata da reperire e il ruolo del critico appare del tutto marginale. Ben più utile è l’antropologo che esamina con attenzione le abitudini delle tribù, in quella pratica che i tedeschi chiamano la Sittengeschichte, che la lingua italiana definisce “etica” ma che in senso letterale significa “storia delle abitudini sedimentate”. Nino Perrone è infatti un narratore visivo di abitudini sedimentate. Non vi è dubbio: esiste un immaginario dell’Italia meridionale, dominato dal sole, dalle stagioni, dal mare. E vi si colloca in modo immediato un piccolo mondo antico di curiosità umane, dove la vita sociale è quella notturna quando fa caldo e la fantasia prende il potere appena le viene offerta l’occasione. Lì si esprimono sguardi traversi e desideri inespressi. È la versione italica del Grande Teatro del Mundo ispanico, ma si sa che da quelle parti, fra aragonesi e Borboni lo spirito barocco di Gongora ha trovato terreno fertile. È una strana questione quella del dipingere. Il XX secolo appena concluso sembrava avere deciso che questa prassi del creare immagini grazie allo stendere della materia colorata fosse stata definitivamente superata da linguaggi più avanzati e da tecniche più consoni alla vasta comunicazione che esigeva una cultura di massa. Eppure la pittura è sopravvissuta; anzi, sembra oggi in un ottimo stato di salute. Nino Perrone la celebra, ne è un testimone e un garbato protagonista. Giorgio Soavi (1923-2008) e Mario Spagnol (1930-1999) erano amici a Milano, il primo nato a Broni il secondo a Lerici, tutti e due intellettuali, il primo come scrittore, il secondo come attento editore. Tutti e due nutrivano una attenzione quasi patologica per la pittura, collezionavano e commentavano in modo parallelo la pittura antica e quella moderna. Questa loro passione li rendeva estranei alle maniacalità dell’avanguardismo e ne faceva invece un intrigante duo di sostenitori d’un linguaggio espressivo che attraverso i secoli perdurava, non morendo dinnanzi alle mode allora vigenti del minimalismo e della concettualità. Per loro la pittura era una espressione naturale dell’essere umano, al pari del canto e della poesia. E loro due, sempre in duetto, sostennero con convinzione e affetto la pittura di Nino Perrone. Spagnol era nato sulle rive del Mediterraneo Tirreno, Perrone è nato laddove l’Adriatico guarda lo Ionio. Due mari ben diversi, due luci ben diverse, quella del Ponente e quella del Levante. Ma non solo due luci diverse erano quelle perché Bari è illuminata dalla lontana Bisanzio, e dalla cultura bizantina Bari ha tratto gran parte della sua fantasia. La città è tuttora, inconsapevolmente forse, sotto la mitica influenza della tradizione ortodossa. Ne ha ereditato la complessità e quella intrigante percezione barocca che era già presente nella commovente cultura vascolare degli antichi, quando i vasi di terracotta facevano da concorrenti nei commerci marittimi a quelli attici. Erano queste terrecotte apule ben più barocche, umanamente narrative e domestiche di quanto non le erano quelle rigorose dei greci antichi. In Puglia si è barocchi da sempre. L’essere barocchi è un modo dello spirito, è un verso mentale per intuire il mondo e pure uno strumento per plasmarlo quotidianamente. E così stanno le cose dalle parti di Bari sin dalla notte dell’antichità, quando la città fu fondata fondendo i popoli locali con un approdo di cretesi, avventurosi sognatori provenienti dall’ isola mediterranea che aveva dato i natali alle prime statue impressionanti dei Kuroi. Ben diversa era allora la vicina Calabria dove Pitagora e i suoi discepoli si esercitavano nel raziocinio monoteista evitando accuratamente di mangiare fave. A Bari oggi Nino Perrone fa rivivere gli dei antichi trasformandoli in carabinieri con pennacchio. Il loro aspetto bonario non incute più timore, rassicura. Tutto si fa umano come un cesto allegro di pane. E Nino Perrone si mette a narrare feste notturne dove si mescolano ospiti che sembrano provenire da riti orientali mentre di giorno guarda il mare dal quale sono approdati. Immagina caricature umane che di molto ricordano quelle che l’antichità ha trasmesso nelle veloci pitture dei vasi decorati dai suoi antenati apuli. La pittura compie il miracolo che la fotografia è incapace a realizzare: trasferisce in icone tangibili l’immaginario mentale e storico, l’arcano sentito o sommerso, il mito e il fantastico. E la pittura assume la virulenza che solo lo spessore della sua materia consente. Dà vita al segno che si articola e plasma la sua profondità. Perché è proprio nell’atto della stesura sulla tela che viene a generarsi il ritmo dei segni nella materia, che si forma il paesaggio psicologico. I colori che solo le terre del sole e della notte esaltano si fanno protagonisti. E il rito antico si perpetua, con il sorriso ironico di chi sa che sa.