CopertinaGaetano Fiore / BiografiaGaetano Fiore / Critica
17 Settembre 2024 Redazione A&S 120
O Gaetanello, questi blu elettrici li hai per caso sottratti a qualche tetto di Chagall, ai suoi violini zigzaganti nella mano ebbra dei suoi barbuti rabbini? E magari qualche moschea rivendica i verdi bottiglia che si accoppiano furiosamente, nella loro tendenza a farsi boschivi, cogli smaltati cobalti preziosi? Oppure sono i paesaggi accesi dalla tavolozza di Ennio Morlotti ad esigerne il rientro? E ancora i tuoi screens dorati che aprono piaghe bizantine nei muri del pianto (dietro di loro un muezzin lancia i suoi puntuali lamenti) appartengono alle vertiginose utopie sceniche di Craig? Ma ormai sono solo tuoi gli alambicchi alla ricerca di qualche pietra filosofale. Il quadro in te si spalanca in effetti coll’ingordigia di un’affamata fornace. Te lo dico da veneziano, residente alle Zattere, di fronte alla Giudecca, e vicino in linea d’aria alle fabbriche muranesi del vetro. Lo sai che Ariel e Ghisola, ovvero d’Annunzio ed Eleonora Duse, si perdevano in quei labirinti alchemici, tra le erbette sulle fondamenta, vicino alle vampe e alle paste fluorescenti prima di fissarsi nei vitrei stampi? Questo al centro de Il Fuoco, uscito l’anno in cui fa il suo esordio il secolo breve, il Novecento. Del resto, sui fondali delle tue tele si ritagliano uno spazio primario candelabri semiti, mentre graal misteriosi si rizzano fieri e aguzzi, e ti chiedono imperiosi di lasciar emergere le loro glaciali epifanie. Ma sono gli alberi ad attrarti, alberi che ti porti dentro, da qualche idillio adolescenziale, un Segantini, un Previati scarnificati dall’incipiente decorativismo viennese. Sono pini mediterranei osservati nelle tue magnifiche terre di origine, o sono betulle nordiche sbocciate dal tuo trapianto germanico, per amore della bella Elisabetta? Fatto sta che dopo Dafne che si muta in arbusto invernale a respingere la foia di Apollo, dopo il dantesco Pier Della Vigna suicida che sanguina allo strappo di un ramo/braccio, irrompono questi tuoi Cristi nascosti dietro il velame pittorico. Perché nel grottesco, ovvero le immagini parietali studiate da Bachtin nelle grotte al tempo delle persecuzioni di martiri e santi, esplodeva l’antica fantasticheria a congiungere mondi vegetali, animali e umani ed era il figlio di Dio alluso nelle icone floreali che si impennavano verso l’alto, segno certo di resurrezione. Già, il tuo amico albero ogni primavera si risveglia e rinasce, a differenza del nostro misero corpo che nel mese più crudele, ossia aprile come ricorda Eliot, mescola ricordi e desideri quando è troppo tardi e la carne non risponde più. Insomma, i tuoi alberi candelabri alzano le loro braccia in un tripudiante inno di speranza. Basta saperli ascoltare, oltre che guardare abbacinati da tanta forza vincente. La medesima forza che promana dalla tua personcina mite e caparbia, fiduciosa nonostante tutto e sempre aperta al dono dell’amicizia. Sì, Gaetano, i tuoi alberelli, le tue arborescenze non fanno che abbeverarsi di una luce acquatica e lunare, vi si specchiano, umanizzando e screziandovi i lineamenti con placida tensione. Nel frattempo, si sporgono non nell’aria notturna, ma in un’acqua profonda. Narcisi insaziabili, si immergono, tremolando di freddo piacere. Ecco pertanto la sinfonia di dittici, di trittici, di polittici che ne declinano e ne scandiscono il loro silente spaesamento. Foglie scendono lentamente dintorno, quali petali sulle cui vene un albume lattiginoso solca i reticoli più intimi. Allo stesso tempo, in alto, baluginano e guizzano spume di rosso sangue, quel che resta forse di oscuri sacrifici, e più su ancora si stagliano onde equine, galoppanti strisce bluastre a parlare obliquamente di risucchi, di annegamenti letali e insieme provvisori. Al centro, spesso, può profilarsi una coppa rituale, dalla base sfrangiata in schegge che lasciano fondersi tra loro correnti verdastre che da paludose tinte bottiglia o misture marengo trascolorano in fresco muschio e poi in luminescenze azzurrine. Altrove, il cielo si stratifica e perde via via pelle e si fa blu marine o royal, rasserenando la notte come in un dolce presepe natalizio. Algide atmosfere, in prevalenza, capaci però allo stesso tempo di scaldarsi e di accendersi come in affreschi pompeiani, o di arrugginire in varianti mattone o farsi penombra violacea. Così pure premono ocra trionfanti, aranci abbaglianti, senapi maliose nella convivenza tra rettangoli e prismi e quadrati, cornici che smottano una sull’altra a incidere ritmi vertiginosi e mise en abîme danzerine. E tutto, oh sì tutto, tutto sale, ripeto, verso l’alto e fatica a contenersi nella misura del quadro. Già, e ti vedo, ti vedo, ti vedo, Gaetano, coi tuoi pennelli sgocciolanti come un fauno insoddisfatto dopo amplessi troppo rapidi, in coabitazione disarmonica con una ferinità necessariamente controllata. Tant’è vero che ovunque volute, ali, anse spezzano il geometrico, lo curvano e lo ammorbidiscono tra indizi di parabole e nostalgie di rotondità, grembi materni più rassicuranti rispetto alle geografie araldiche e ai cimiteri deprimenti dopo la battaglia. Ogni tanto in pinete simili a tentacoli ossessivi spunta pure qualche lettera da un occulto alfabeto, un’acca che pare oscillare a mo’ di altalena infantile. Forme calcinate, sagome ramate, liquidi simulacri conferiscono di fatto allo spettro dei colori un’accezione spiritistica. E mi appari allora, Gaetanello, all’improvviso quieto, quasi appagato dopo tanto furibondo sperimentare sempre nuove dimensioni. L’Olimpo dei tuoi archetipi illustri, la serie dei grandi modelli dell’avanguardia, i Kandinsky, i Mirò, i Rothko, i Tanguy, e i nostri Licini e Soldati, per elencarne alcuni, assimilati nel tuo lungo apprendistato, si fanno da parte davanti a tanta autonomia e idealmente si felicitano colla tua raggiunta maturazione. Dal maelstrom visionario risali infatti con qualcosa di stabile, idioletti personali dove appoggiarti e respirare con comodo. Ti permetti così di tendere una mano non più “pargoletta” all’albero-croce-coppa che sembra placare finalmente la tua anima.
(testo critico tratto dal catalogo "Alberi crescono in acqua", edizione limitata con opera integrata del 2014)
La prima opera in assoluto che ho visto di Gaetano Fiore, ancora non lo conoscevo, è la copertina di un libro, "La pagina, lo schermo, la scena. Scritti per Francesca Bisutti", a cura di Gregory Dowling e Rosella Mamoli Zorzi: avevo letto nella bandella del volumetto che si trattava di “lichtzitterndes Spiel / gioco vibrante di luce, Icona n. 14”, opera del 2012 dell’artista sangiorgese. Poco dopo, in modo assolutamente casuale (ma esiste il caso?) e grazie al comune amico Paolo Puppa, ci incontrammo a Venezia. E ho potuto vedere. Una prima rapida ricognizione della sua opera m’introdusse in quel mondo che mi apparve come dedotto da un’osservazione al microscopio di cellule cerebrali, così come avevo letto in una poesia: “[...] cellule, / una dietro l’altra, una accanto all’altra, / cellule come alberi, come piramidi, / come colonne, come farfalle, come reti, / in controluce al microscopio, / cellule vicine, ma separate / da minuscoli spazi [...] / in tanti tessuti, con tanti coloranti: / cellule – neuroni -, spazi – sinapsi - / [...] cellule come astri / in un universo di labirinti e memoria. / […] Entrerò in questo bosco magico / cui so dare i colori del fuoco, dell’autunno o della primavera, / abiterò questo paesaggio di lampi invisibili, / di canali che si aprono e si chiudono, / e sarò l’astronomo di questo cielo interiore / e il boscaiolo di questa densità elettrica e musicale.” David Jou ne era l’autore, un altro caro amico, nonché fisico e poeta catalano, che la dedicava allo scienziato spagnolo Santiago Ramón y Cajal il quale, nel 1888, aveva fatto la prima osservazione al microscopio dei neuroni. Mi sembrava una fedele interpretazione di ciò che avevo potuto vedere fino a quel momento nelle opere di Gaetano Fiore. Le nozioni costitutive della sua poetica (alberi, colori, luce, geometrie talora precise talaltra aleatorie e sfumate) davano spettacolo sotto il sistema di lenti che schiudeva le porte di quel mondo, allora ignoto. Lo stesso senso di sorpresa e d’inquietudine che si prova quando ciò che cerchiamo si materializza in un dato immensamente più potente di quel che possiamo supporre. Non mi ha sorpreso però uno degli esiti espositivi più recenti del lavoro dell’artista sangiorgese: “Dello spirituale”. Una dimensione palpabile in tantissime produzioni, una mistica quotidiana di ricerca, spesso solo accennata, ma mai completamente taciuta. Qualche tempo fa ero capitato a Scandiano dov’era in corso una mostra di Enzo Silvi intitolata esattamente “Mistica arte”, in cui al dipinto si associava la ricerca di una grammatica simbolica atta a esplicitarne il senso, presto individuato nella parola riprodotta dei Veda. Nell’opera di Gaetano Fiore, la stessa ricerca approda a un Cristo essenziale, arboreo, leggibile nel tutto. A coronamento didascalico si accompagnano le liriche, quasi degli haiku, di Andrea Petrai. O forse le tele si accompagnano alle parole: la sinergia è talmente perfetta che paiono frutto dello stesso atto creativo. Credo che la lezione di Gennaro Vitiello si stata acquisita da Gaetano Fiore con rara perizia. Egli scrive: “Sì, mi pare ieri, caro Gennaro, quando sostenevi che dipingere, così come disegnare, significasse studiare incognite modalità di osservazione, elaborare una nuova ‘recherche’ per sostanziare le proprie idee”. Pittura come modalità di osservazione, esattamente come lo scienziato che, per la prima volta, dispone di un potente microscopio e vede l’invisibile, l’inafferrabile, l’inimmaginabile. E l’artista ci presenta i risultati delle sue investigazioni in cui, proprio perché invisibile, inafferrabile, inimmaginabile, lo spirituale si fa figura in Croce, albero della vita: luce, colore, liquida fuga, dissolvenza, ombra, in una progressione che abbandona presto la narrazione esplicita e diventa segno grafico, allusione infinita, riducendosi, come scrive ancora Jou, a “pigmenti / fotoni”. Difficile non farsi irretire dalla malia di questo linguaggio, non rimanerne impigliati, anche volendolo osservare dall’esterno. Una risacca notturna che ti ghermisce dolcemente fino a trascinarti in alto mare, là dove è ancora più piacevole osservare le stelle.
(testo critico per la mostra al PCTA di Milano nel 2022)
La ricerca artistica di Gaetano Fiore è da sempre animata dall’esigenza estetica ed esistenziale di dare forma alla realtà. Il suo mestiere del dipingere tende alla sintesi attraverso un itinerario concettuale e fisico che passa per una progressiva, raffinata semplificazione narrativa capace di enucleare l’anima delle cose. La natura si disperde nell’infinita profusione di frammenti di sé che generosamente la moltiplicano in un caleidoscopio stordente e, conseguentemente, le nostre percezioni vengono sollecitate dalla giostra illusoria dei fenomeni e sembrano danzare fulminee sulla lustra superficie di un mosaico bizantino. Nelle opere di Fiore, invece, la frammentarietà segmentata del tempo cronologico, che nella scansione di ieri, oggi e domani si definisce ma anche subito si consuma, s’acquieta nella rarefatta dimensione sincronica del qui e sempre, ove tempo e spazio specularmente coincidono, giacché il tempo è lo spazio intangibile e lo spazio è il tempo percepito. Cogliere l’idea che riassuma in chiave simbolica l’essenza esemplare che alberga nella caducità dell’evento significa salvare quell’accadimento dall’inesorabile fluire, strapparlo alla voracità crudele del divenire e isolarlo compiutamente in “cornici trasparenti e quadrature vibranti” simili a trame appena sfilacciate di arazzi consunti. Rossi carminio e cinabro, blu d’oltremare e Prussia, ocra e terre, fluorescenze, tutti ci parlano una lingua elegante di antica modernità. La pittura di Gaetano Fiore invita a sostare in un’autentica pausa estetica e a indugiare nell’attento ascolto di ciò che sorprendentemente potrebbe accadere. Con garbo si viene accompagnati sulla soglia di un’architettura equilibrata e, nella calma sacralità di un tempio, ci si trova immersi nel pathos ineffabile di una scenografia teatrale. L’enigma straordinario della vita si perpetua nell’attesa di una rivelazione e nella ritualità solenne di una cerimonia per iniziati contemplanti un mistero. Le forme rigorose e cifrate diventano pietre miliari, labirinti geometrici di ramificazioni, slanci danzanti di virgulti e tronchi stilizzati; sono geroglifici che il colore evoca, lascia affiorare dal fondo della tela e gradualmente libera, sagome primigenie che si stagliano all’orizzonte della memoria o reminescenze che si destano da ancestrale oblio. Con pazienti stesure, sovrapposizioni meditate, pennellate laboriose e ondivaghe, il colore si espande in superficie, materializza poi la centralità dello spazio, senza riprodurre il mondo ma riassumendolo e reinventandolo magicamente potenziato. L’immanenza del colore non è misurabile, vive d’infinita energia propria e genera uno spontaneo e cangiante dialogo con l’esterno in un’ininterrotta tensione oltre sé. La luce filtra dall’ordito del colore, i pigmenti si accendono nell’incanto di quell’ora panica e del momento epifanico a cui il pittore instancabilmente anela. È il colore a dare il senso: esso permane senza patire la durata, sosta adeguato e totale, è significante e significato, materia e spirito, apparenza e sostanza, uno e mutevole. E su tutto, anche sulla morte, è il colore-vita che vince.
Il titolo della mostra delle opere di Gaetano Fiore attira l’attenzione, tuttavia unisce presumibilmente degli opposti. L’albero evoca associazioni di crescita, espansione, spazio libero pervaso, mentre il quadrato rimanda al simbolismo del numero quattro e quindi contiene la limitazione, l’avvolgimento in uno spazio ben definito. Con questo numero come motivo fondante vengono compresi simbolicamente il mondo ed il tempo con i suoi quattro punti cardinali, le sue quattro stagioni ed i quattro elementi. Lo spazio così delimitato con i suoi confini, a cui anche il tempo appartiene, è tuttavia la sua essenza, la morte, si contrappone all’eternità, libertà e vita. Relativamente alla dimensione religiosa, rappresentano rispettivamente il numero quattro ed il quadrato l’immanenza, la finitezza, l’uomo ed il suo mondo. D’altra parte l’evasione dal sistema imperniato sul quattro o dalla quadratura rappresenta un superamento dei confini intrinsechi al mondo. Dal principio, l’uomo è destinato al suo mondo, il che secondo Agostino trova la sua espressione nel nome Adam. Nella sua interpretazione mistica del nome, Agostino vede Adam come la composizione delle lettere iniziali delle definizioni greche delle quattro zone del mondo: Anatole = Oriente, Dysis = Occidente, Arktus = Settentrione e Mesembria = Meridione. Con ciò si dichiara la contrapposizione dell’uomo verso un Dio eterno, infinito, indicibile per lui solo già nel nome del primo uomo. Ogni costrizione, ogni legame sollecitano però a superare il confine fissato. Se vogliamo rimanere nel contesto biblico della storia della creazione, questo desiderio si esprime nel peccato originale, nell’impeto umano di volere essere uguale a Dio e di non dover essere limitato ad uno spazio vitale finito. Che questa evasione anelata dall’essere umano si attui proprio mediante l’albero della conoscenza del bene e del male, sottolinea la dialettica biblica di tensione tra numero quattro ed albero, che viene annullato cosicché l’albero della conoscenza si trasforma in albero della morte e, con ciò, il quattro diventa simbolo numerico della limitatezza e finitezza. Non so, se l’artista fosse conscio degli aspetti contenuti nelle mie riflessioni. A dire il vero, non credo, tuttavia, a parer mio, egli non compie la metamorfosi simbolica biblica dell’albero della conoscenza in albero della morte, bensì, evidentemente, indirizza lo sguardo dello spettatore direttamente alla contrapposizione tra la forma costringente del quadrato e quella libera dell’albero che cresce e si espande. In tal modo, nella contemplazione dell’opera, vengono però presentati davanti agli occhi lo stato intermedio proprio dell’essere umano, la sua vita tra tempo ed eternità, limitatezza e libertà, morte e crescita. Gaetano Fiore fa diventare l’albero il segno premonitore del cosmico e la mano che vi si protende ad afferrare, almeno come medium tra cielo e terra. La terra – simboleggiata nel quadrato – viene penetrata dal cielo – grazie all’albero. L’albero supera il divario tra finitezza ed eternità, morte e vita, e rende visibile, auspicabile sia un accostamento sia, al tempo stesso, una coesistenza. Le immagini ripetute, scelte talvolta dall’artista, del quadrato e dell’albero, divengono espressione dell’intensità di una nutrita speranza nella fine della contrapposizione e dell’esclusione di un divario tra immanenza e trascendenza. Le opere di Gaetano Fiore non sono opere con una tematica religiosa percepibile in superficie. Ma su di un piano più recondito, dietro al simbolismo che vi alberga e mediante esso leggibili lasciano esse intravedere una delle speranze animate e trainanti dagli albori dell’umanità, che fu forza motrice per Adamo come per Icaro e per ogni uomo in ogni tempo: fuori dalla limitatezza di tempo e spazio e seguire le tracce viventi che sono nell’albero e mediante esso riconoscibili. La ricerca di tracce, la ricerca di vita si palesano agli occhi nelle opere di Gaetano Fiore, il desiderio ineguagliabile di aver parte in modo vincente alla vita cosmica dentro al mondo e fuori dal mondo e il suo venir fuori dai confini. Un desiderio rivolto alla verità della vita, che tanto viene negata, quanto la vita viene vista come somma degli anni in questo mondo, su questa terra. La vera dimensione della vita supera i confini e si insedia e si radica anche laddove la verità sovra-temporale ha la sua patria. Forse che nelle opere presentate, il sempre ricorrente colore blu non allude proprio a ciò nel suo simbolismo? Ed altrettanto, il rosso che nella sua valenza simbolica rimanda all’intimità dell’amore per la vita, per l’intensa brama di vita? Gaetano Fiore lascia tracce di vita con le sue creazioni, guida attraverso esse la nostra visione e ricerca di vita e vuole far carpire a sé e a noi la vita. Così si rinnova per me l’esperienza con ed attraverso le opere di Fiore, opere che ebbi già la fortuna di conoscere per la prima volta anni fa a Würzburg. Mi permetto di invitare tutti i visitatori ad abbandonarsi per il loro piacere a questa scoperta che Gaetano Fiore ha predisposto. Sicuramente essi saranno profondamente grati per quest’opportunità e a me e all’artista; inoltre nutro la speranza che l’autore non desista anche nella sua futura evoluzione artistica di mostrarsi annunciatore di ciò che a noi rimarrà precluso nello sperimentare con il solo riferimento a questo mondo.
(testo critico tratto dal catalogo della mostra "L’albero e il quadrato" svoltasi in Costa Azzurra nel 2008)
Le opere di Gaetano Fiore riflettono la necessità deontologica di dare forma compiuta al suo mondo interiore sempre incline a restituire a nuova e autonoma vita, con impronta inconfondibile, ciò che pazientemente ha filtrato e metabolizzato dell’esperienza del reale. Non è pittura che cela il suo autore, bensì che lo rivela con quella gradualità e poetica del mistero che solo la contemplazione estetica sa così abilmente cogliere. Il titolo della mostra non vale soltanto come felice accostamento sinestetico delle percezioni visiva e uditiva che, per atavica abitudine, siamo soliti distinguere. Luce e suono risiedono entrambi nel colore, ne sono attributi imprescindibili, brulicano nella polvere dei pigmenti, si energizzano vicendevolmente. Per dirla con Fiore: “L’amalgama generale, ottenuto dal controllo del colore e sul colore sovrapposto più volte, restituisce, in varchi appena percettibili, la luce e poi le velature che lasciano intravedere porzioni di colore maculato e pericolosamente vibrante”. La metodica e laboriosa stesura stratificata delle cromie, simile a un ostinato in musica, delinea con ferrea progettualità e piglio rigoroso la partitura dell’insieme, una sorta di strumentazione in cui ogni suono va ad armonizzarsi perfettamente con la propria veste tonale. Il colore è spazio atemporale che, sulla superficie della tela, si libera e sviluppa in volumetrie architettoniche. Le pareti di queste non sigillano l’ambiente costruito, ma aprono varchi sull’oltre o meglio, a guisa di membrane pulsanti, lasciano affiorare al di qua ciò che è al di là. Siamo di fronte a creazioni che riescono a sottrarre al divenire simmetriche geometrie di solidità monolitica e scultorea. Le tradizionali antinomie forma/materia, astratto/figurativo, contenuto/ contenente, iscritto/iscrivente si sciolgono nell’assolutezza del colore. Nel “Polittico delle icone” si annulla anche l’alterità immagine/parola. Questa la chiave di lettura dei rimandi palesi, soprattutto nell’ultima produzione artistica di Fiore, a una trascendenza non metafisica bensì immanente e totale: decifrare l’enigma che alberga nella profondità del colore. Soprattutto l’indicibile nostalgia d’infinito e il dinamismo del blu, la stanziale monumentalità d’antica memoria del rosso, la duttile iridescenza del verde. E, a baluginare dalla juta o dal lino del nudo supporto, nella sospensione lirica di cesure al racconto, il bianco, il non colore, l’unico capace di restituire il silenzio al suono.
Così prossimi nell'intuizione
Pittura-letteratura. Linguaggi distanti forse nella forma espressiva, eppure così prossimi nell'intuizione. Arti separate nella loro percezione fenomenica, ma bellamente riunite nel fulcro dell'essenza carpita. Evocare: questo il nodo cruciale che le salda come facce fuse di una moneta fresca di conio. Un tinnante cangiare niente affatto ossimorico e naturalmente sinestetico, potenziamento vicendevole di due monologhi che s'intersecano e slargano per allentarsi in un ampio dialogo. Poi la medesima interdipendenza dalla necessità estetica di decifrare il mistero nelle cose, attendere che nel processo creativo qualcosa si palesi o accada, poco importa, in fondo, se realmente esperito o immaginato. In entrambe anche l'incipiente, stranito e timoroso imbarazzo di perturbare l'ipnotica albedine di una pagina bianca o di una tela immacolata. Ma anche il risoluto coraggio di accogliere la sfida a incedere, intervenire con la propria impronta, quella calcata da una parola scritta o tracciata da una pennellata.
Agire attraverso il segno
Agire attraverso il segno, osare attraverso esso, esporsi al pericolo d'incrinare una perfezione irripetibile, il primordiale equilibrio che precede ogni gesto arbitrario. Passo che rischia di sconfinare nella hybris, se non misurato dal rigore della consapevolezza ad autodeterminarsi. Tuttavia cimentarsi con l'ardente desiderio di dare parola a ogni silenzio perfetto, di restituire presenza a una solo apparente assenza. Non tanto andare al di là, quanto far affiorare al di qua ciò che è oltre, ma c'è. Tracciare l'infinito nel finito, respirare l'incommensurabile nella rete delle apparenze, poter finalmente ipotizzare accanto al qui e ora anche un ovunque e sempre.
Dallo Stundenbuch di Rilke alla pittura di Fiore
Della vasta produzione letteraria di R. M. Rilke, Gaetano Fiore predilige lo Stundenbuch perché esso è felice esempio poetico di come un'ispirazione meditata riesca a modulare spontaneità con programmaticità. Un'assonanza con il codice estetico in pittura ove forma e contenuto si armonizzano alla maniera di voci che si sciolgono in un canto, l'una come naturale estensione dell'altro. Potremmo dire che il rigore della composizione sigilli l'autonomia del creare, ma che pure la potenzi, in senso romantico, coll'impellenza del fare. Il nucleo della mostra “Stimmen in Farbe” consiste proprio nel ciclo di opere ispirate dalla lettura paziente e reiterata dello Stundenbuch. L'immersione in esso induce l'artista a conoscere il testo poetico nelle sue pieghe più recondite, a interagirvi, metabolizzarlo fino a captarne le suggestioni molteplici. Scaturisce così un'interpretazione originale che preserva lo spirito della fonte, senza ricorrere a descrizioni o parafrasi, mirando bensì ad amplificarne le sonorità nell'amalgama del colore. Dare immagine al contenuto e plasticità alla forma diventa quindi il presupposto per stabilire un contatto non effimero con la parola scritta e incastonarla come una gemma preziosa.
La dialettica di icone e polittici
La stessa architettura dello Stundenbuch in tre libri, luoghi concreti e dell'anima in cui fisicità e astrazione fluiscono incessantemente dal dentro al fuori e viceversa, materializza l'idea istintiva di strutturare l'installazione su tre navate ideali, le tre pareti della sala espositiva principale del Dom Museum di Würzburg. Queste ultime vanno ad accogliere e custodire, come in uno scrigno, icone e polittici dedicati rispettivamente a una delle tre sezioni dell'opera rilkiana. Il ritmo triadico di tale allestimento, scandito nella tesi e antitesi delle tappe di un viaggio, sì geografico – Firenze, Russia, Parigi – ma soprattutto interiore, tende dialetticamente alla sintesi di un'arte totale.
Una finestra sul tempo
L'opera “Le icone”, relativa al primo libro Vom mönchischen Leben, è situata nella navata centrale. Ispirato dai sessantasette componimenti in versi (preghiere) dell’autore praghese, Fiore realizza altrettante composizioni pittoriche di piccolo formato disposte nella sequenza di una sorta di istogramma pulsante su grande spazio. Ciascuna di queste nasce proprio dalla lettura emozionale di una parola, una rima, talora un'intera lirica. All'immediatezza dell'impressione destata, segue poi lo studio meticoloso che la contiene e riassume nell'intensità combinata di forma e colore. L'icona è in pittura ciò che il verso è in poesia: parte per il tutto. Come finestra spalancata sul tempo essa cristallizza nello spazio tracce di eternità, la sacralità irripetibile di ogni momento che “dura quanto un sorriso”. Se il verso coglie l'evento o un suo accenno per salvarlo dalla sua inevitabile decadenza e sublimarlo in una forma che lo perpetui, l'icona individua un particolare, lo isola dal grande quadro, lo sgrana poi sotto una lente capace di indagarne financo l'invisibilità e lo legittima a mondo in sé. Il dettaglio diventa un universo vergine da esplorare con il cuore di chi sa affidarsi alla magia di luce e buio. In contemplazione.
L'eternità dell'attimo
La lentezza della vita monastica e la sua ritualità ciclica lasciano attecchire una riflessione sul tempo come grano in un terreno fertile. Cogliere l'idea che riassuma in chiave simbolica l'essenza esemplare che alberga nella caducità dell'evento significa eternarlo compiutamente, con una definizione dell'artista, in "cornici per la luce nell'intelaiatura del tempo, giacigli per la decantazione del colore". Solo così la parabola dei giorni non declina invano, ma sconfigge l'entropia dell'oblio riparando nel palazzo della memoria, nella costruzione labirintica delle stanze dei ricordi.
Un tempio di antica modernità
L'intera sezione “Das letzte Haus”, che si articola in “Trittico delle ore”, tributo al musicista jazz Bill Dixon, e nella serie degli “Arazzi”, si riferisce al Buch von der Pilgerschaft, secondo libro dello Stundenbuch. Qui l'icona si dilata in portali e vetrate su tela. La ricerca pittorica di Fiore si fa meno filologica e, con raffinata eleganza, va a sondare alternative possibilità di senso nell’astrazione. La profondità filosofica del pensiero di Rilke viene scandagliata attraverso una sperimentazione cromatica dall'immanenza non misurabile; essa si nutre di energia propria e instaura con l'esterno cangianze di fluide tonalità in ininterrotta tensione oltre sé. A poco a poco l'andamento diveniente del pellegrinaggio frena il suo progredire; il viandante si arresta davanti a un luogo ove poter riposare e non sentirsi più senza casa. Per lui la salda pacatezza dell'architettura del colore si fende enigmatica in trasparenze che, fulminee, profilano un tempio di antica modernità sulla cui soglia indugiare. In attesa. Visioni oniriche, con l'esuberanza di slanci vitali, sprigionano dalle recinzioni di grosse fasce austere, cornici mozze in alto, in basso e lateralmente, solcando le vie di fuga di croci affioranti. Quadrature iscritte e iscriventi ritagliano appena quel che resta di sagome archetipiche nella ricorrente e cifrata sequenza di alberi monolitici, si sfibrano come stoffe, sdruciscono come tappezzerie e s’imparentano col supporto della tela. La luce filtra dall'ordito, i pigmenti si accendono nell'incanto di quel momento panico in cui blande si fanno le maglie del velo di Maia che ingannano i nostri sensi.
Lo sconfinamento
Nel “Polittico del Graal”, dedicato alla terza e ultima parte Von der Armut und vom Tode, l'assolutezza del colore è preludio alla quieta epifania di un tempo maturo che si celebra nella grazia magnetica di una maestà medievale. Qui si erge un altare su cui campeggia la vacua pienezza di un calice che, con solennità, scaturisce dalle onde di un paesaggio, pianura o mare che sia, e si staglia sospeso nell'immenso. Una chiara metafora del raccogliere/diffondere, del ricevere/donare, nonché frutto di una trascendenza personalissima e di una religiosità riconoscente. Solo adesso pare davvero possibile quello sconfinamento tra cielo e terra, verso principio e fine, oltre vita e morte che Jürgen Lenssen aveva già intuito e anticipato nel suo illuminante saggio “L'albero e il quadrato” del 2008, analizzando la produzione pittorica di Fiore di quegli anni. Le antinomie si sfaldano, le domande si esauriscono. In ascolto. Cromie immanenti e totali frantumano con energia le forme-involucro che esse stesse hanno fatto germinare e tracimano da volumi ormai incapaci di arginarne il fiotto denso. Con la lentezza ineluttabile della lava inghiottono il resto.
Nel limite un varco
L'iter spirituale dello Stundenbuch volge al termine. La parola scritta va a ricucirsi con la parola proferita, scardina definitivamente gli angusti perimetri che ne paralizzano il valore espressivo, s'innalza quindi nella verticalità di una preghiera, in una mistica insita nelle cose e nella scintilla divina che da esse promana. Una saggezza acquisita: non solo riconoscere tracce d'infinito nella finitezza e farlo emergere alla luce, come l'oro nel fiume, ma saper individuare nel limite un varco, nella fine l'inizio, nella grande morte la vera vita. L'altare, il bordo, l'orlo, la soglia esemplificano ulteriormente, nella loro simbologia metafisica dal potente impatto visivo di una scenografia teatrale, la straordinaria vicinanza di letteratura e pittura.
Voci nel colore
Rilke sa dare corpo alla parola e poi la smussa come una pietra per enuclearne l'essenza. Le sue poesie diventano cose che posseggono l'incisività materica di un quadro di Cézanne e il vigore plastico di una scultura di Rodin. Fiore vuole che la parola si sustanzi nel colore affinché il suo significante si rifletta nel corrispondente significato fino ad aderirvi compiutamente. Le “voci montanti del tempo” riecheggiano nelle sue opere come queste fossero l'alveo di conchiglie perdute nell'abisso e risalgono dà profondità ancestrali con la medesima naturale necessità dell'ossigeno che urge verso la superficie. I pigmenti, la cui metodica e laboriosa stesura stratificata rammenta un ostinato in musica, pullulano di rimandi letterari plausibili. Il dinamismo del blu è pure quello dell'inesprimibile nostalgia d'infinito di Novalis. La monumentale stanzialità del rosso ha, talvolta, la febbre dell'immaginario fantastico di E. T. A. Hoffmann. La duttile iridescenza del verde tratteggia le atmosfere sommerse di alcune novelle di L. Tieck. E, nella sospensione lirica di cesure al racconto, non potrebbe forse essere il bianco, il non colore che balugina dalla juta o dal lino del nudo supporto, anche un'allusione visiva all'”Offene” dell'Ottava Duineser Elegie di Rilke, al superamento cioè delle usate categorie spazio-temporali che ci precludono la conoscenza della cosa in sé?
Lo spazio espositivo proposto dal Teatro PACTA di Milano all’artista Gaetano Fiore è quantomai congeniale per la sua installazione “Trasparenze e Trascendenze”. Quest'opera inedita, concepita proprio per tale luogo, risponde alla finalità estetica di stabilire un duttile e cangiante dialogo cromatico, scandito da luci e ombre, tra opera e ambiente circostante. E ciò coerentemente con la ricerca rigorosa e metodica che ha da sempre animato in concreto il mestiere di Fiore, abile artigiano del colore, nella sua metodica scelta e sapiente preparazione di preziosi pigmenti da stendere con cura sul supporto della tela, di juta o lino che questa sia. Per meglio comprendere questo progetto è forse utile sintetizzare alcuni aspetti enucleati da un testo del Domkapitular di Würzburg Jürgen Lenssen, scritto in occasione della presentazione della mostra di Gaetano Fiore a Bormes-les-Mimosas in Costa Azzurra “L’albero e il quadrato” del 2008. In esso si ripercorrono le tappe salienti di un iter sia di formazione che di sperimentazione, percorso sia umano che spirituale costellato da visioni ed esperienze vissute (Erlebnisse) reinventate ogni volta nell'atto irripetibile, entusiasmante del creare. Per Lenssen vi è una solo apparente dualità ossimorica tra l'immagine dell'albero, che evoca associazioni di crescita, espansione, e il quadrato che rimanda piuttosto al simbolismo del numero quattro e quindi contiene in sé significati evidenti di limitazione e chiusura. “Mediante il Leitmotiv del 4 (moltiplicato quantitativamente nella struttura cubica qui realizzata e altrettanto potenziato qualitativamente in una verticalità architettonica che ad altro mira) si comprendono fittiziamente il mondo con i suoi quattro punti cardinali, le quattro stagioni e i quattro elementi. L'ambito così delimitato dai suoi confini, a cui anche il tempo appartiene, diventa paradigmatico e, in sé, incarna l'essenza di un microcosmo compiuto. In chiave più intima e spirituale, il numero quattro e il quadrato coincidono con l’immanenza, la finitezza, l’uomo e il suo mondo, mentre l’evasione dal sistema precostituito, alla quale lo slancio vitalistico dell'albero allude, indica un superamento della costrizione imposta”. Gaetano Fiore rende l’albero il segno premonitore del cosmico, quasi un soffio primigenio che, benevolo e ritmato, respira ininterrottamente tra cielo e terra. La terra viene penetrata dal cielo tramite l’albero che riesce mirabilmente a superare il divario tra vita e morte, ora e sempre. Torna qui alla mente l'albero di Yves Bonnefoy capace di conciliare grovigli di concetti e sistemi di molta filosofia moderna e contemporanea con l'urgente e fertile proliferare di sogni e pulsioni che permeano le varie espressioni artistiche e la letteratura d’avanguardia. Trasparenze e trascendenze si intersecano e incrociano senza posa nell'installazione di Gaetano Fiore, in un’ambientazione doppiamente scenica tramite quinte trasparenti che, accavallandosi l’un l’altra, generano visioni multiple. Esse progressivamente sfumano in dimensioni oltre la contingenza, lasciandoci sulla soglia di un sacrario in attesa di rivelazioni che forse potrebbero palesarsi.
Le 67 icone di Gaetano Fiore, che maturano dall'attenta, reiterata e metabolizzata lettura dello Stundenbuch di Rainer Maria Rilke, hanno rivisto la luce dopo quasi dieci anni dalla mostra Stimmen in Farbe tenutasi a Würzburg nel 2015. E ciò in un contesto doppiamente protetto: lo spazio sospeso, sognante di Casa Esagono di Vittorio Giorgini che le ha ospitate come alveare e la fresca dimora di alberi amici, spontaneamente dialoganti con le percezioni di visitatori capaci di ascoltare tra le pieghe dei fenomeni per carpirne quell'essenza che li riassume nell'apparente invisibile. Il prodigio di saldare pittura-letteratura si realizza perfettamente nel binomio Fiore-Rilke che, nella loro rispettiva produzione artistica, privano il dire del suo descrivere, liberano il colore dal suo essere complementare, incuriositi più dai varchi di continue allusioni e rimandi all’oltre nello spazio o nel tempo. In entrambi vi è una matrice chimica, una sospensione iniziatica a contemplare un mistero. E ciascuno lo fa con lo strumento del mestiere che più gli è congeniale. La poetica di Rainer Maria Rilke trova ispirazione nelle cose intese come presenze durevoli che sfuggono pressoché indenni alla cieca voracità del tempo cronologico. Ma anche la natura rappresenta per l'autore praghese di lingua tedesca un richiamo potente nel quale l'infanzia del singolo si identifica con lo stato di meraviglia della fanciullezza del genere umano ai suoi albori. Nella produzione pittorica di Gaetano Fiore, la salda pacatezza dell’architettura del colore si fende enigmatica in vibrazioni luminescenti che, fulminee, risagomano un sacrario di antica modernità sulla cui soglia poter a lungo indugiare “come dopo corsa in salita”.