CopertinaAnna Donati Iskra / BiografiaAnna Donati Iskra / Note critiche
7 Luglio 2021 Redazione A&S 719
In questa sezione sono raccolte alcune note critiche sull'artistica Anna Donati Iskra dal 2010 al 1998.
ANNA DONATI: RITMI MOBILI. Davanti all’invasione di una comunicazione che non ha più i sensori della qualità, abbiamo la convinzione che non abbia più senso organizzare il tempo e lo spazio sulla tela, o altri supporti, per dare vita a ipotetiche scene future, legate fantasie surreali cartacee o cinematografiche. Sappiamo invece che per alcuni artisti esiste una forza presente, un’energia vitale, per i quali è necessario incanalare tutti i propri sforzi oltre il limite sempre riconoscibile del reale. Indubbiamente questo duello con una realtà da contrastare, difficile da condividere e sostenere, in mezzo ad un panorama artistico così desolato, evidenzia il ruolo del pittore che comunque ha una parte attiva sulla scena, che vuole evidenziare, magari per sé, il ruolo dell’immagine come soglia del mistero dell’universo. L’autenticità del dipingere di Anna Donati (Iskra) è visibile nel suo sforzo di libertà di fronte ai legami che ci impone il mondo tecnocratico, e non ultimo il sistema economico, nonché i modelli della cultura di massa. Il suo è un impegno che si basa sull’intensità emotiva del linguaggio pittorico, sul problema che la materia cromatica viene recepita attraverso il filtro dei sensi, quindi non solo la vista, ma tutti gli strumenti di percezione che il nostro corpo ci mette a disposizione. La pittura che l’artista pratica con queste convinzioni, diventa un modo autentico di testimoniare la continuità di una sua personale speranza creativa, e storica, fondata sulla ricerca del colore, dei vari materiali usati, sul piacere della loro trasformazione, sul desiderio di sollecitare in noi visioni nuove che contrastano l’impoverimento dell’esperienza artistica, spesso svuotata di ogni effettivo legame poetico con la vita, disciplina della mente e del corpo. Lo spazio-tempo della nuova astrazione (ultimi tre anni di ricerca) si propone dunque come la fenomenologia di un mutamento (combinazione, musicalità, struttura) di colori, linee, concetti, materie, luci. Soprattutto la luce pare avere una rilevanza fondamentale e richiede una attenzione non marginale. A questo punto risulta evidente che parlare dell’astrazione dell’artista marchigiana significa portare in primo piano le coordinate di un universo parallelo, un mondo a molte dimensioni. Se lo spazio-tempo rivela il carattere autentico delle arti visive, un procedere riflettere concreto, per linee, colori, materie e luci, l’esperienza astratto-concettuale è quella che evidenzia una particolare densità in questi concetti. Da qui nasce la grande importanza attribuita al segno, alla pennellata, al tratto, alla goccia di colore, alla matericità, alla superficie della tela come texture e campo operativo, anche in quanto tracce e impronte dell’intervento più intimo e personale dell’artista. Questo gruppo di opere concepite negli ultimi anni hanno innanzitutto in comune la rottura del perimetro della forma della tela, e poi un impulso verso un mondo cosmico intessuto di luce e di buio, di una materia carica di movimento e di drammatiche tensioni, e da un altro canto un ulteriore gruppo di opere che puntano i loro strali sull’arabesco del segno e sulla musicalità della composizione. Le tele rinunciano alla monumentalità della frontalità, e con un’operazione di slittamento, o di curvatura, dei lati del perimetro, cercano il recupero di una geometria iperbolica di tipo americano (Noland, Morris), si intende dunque dare una dimensione nuova al quadro, non più oggetto da guardare, ma oggetto che si fa guardare, che deve essere guardato come si guarda un’architettura contemporanea. La Donati non è l’ultima erede di un esprit de gèometrie, perché sa immettere in quel mondo ormai fisso una carica vitale che ci pare, senza dubbio, autobiografica. Se guardiamo queste opere ci rendiamo conto che l’artista vuol dare alle sue forme il compito di indicare lo spazio, e allora altera le geometrie contenitive del quadro, la tela esplode allungandosi da un lato, incurva un’altra parte, modula se stessa secondo rapporti che scardinano la nostra pigrizia mentale. La curvatura di un lato (N° 305, N° 300, N° 303) diventa simile alla flessione dell’orizzonte, la complicazione del rapporto terra/cielo. In questo senso la Donati parla di legame con la natura, con la terra, con la storia, e non solo con i problemi di spazio e di luce. È uno scatto importante della forma insito in questi quadri, i quali non sono visioni e non sono racconti, ma una serie di confessioni ad opera di un’artista solitaria, che si aggira tra cose visibili e invisibili, tra vita e interiorità. La pittura si bilancia tra poli diversi: nel colore convivono misteriosamente il timbro e il tono, ma il quadro resta opera conchiusa e opera aperta, propone una nuova esperienza seguente a un’esperienza vissuta; unisce strettamente il fare e il contemplare, ma certamente una “contemplazione produttiva”. Se osserviamo tele come: N° 307, N° 297, N° 298, N° 299, non possiamo non constatare che l’unico tentativo di rompere l’omogeneità e la fissità dell’arte pittorica è venuto dalle avanguardie, col loro continuo minacciare l’eterogeneità e l’invasione, la pluralità delle materie, e l’occupazione fluida degli spazi: e proprio in questo costante accenno allo squilibrio consiste la loro infrazione. In opposizione alle crude aperture sul futuro del passato – che affermava la sua concezione del mondo come “rappresentazione” – la Donati dice la sua “volontà”, che è sempre poi volontà di vivere, portando sulla superficie un irresistibile impeto segnico, che noi vediamo apparire nella natura inorganica e vegetale, come anche nella parte vegetativa della nostra propria vita. Ecco che allora la pittura della nostra artefice diventare una catena di possibilità, ciascuna delle quali si rilancia sul margine di incompiutezza della precedente. Essa non può mai quindi “compiersi” interamente, ma rinviare ad un processo sempre flagrantemente in atto. Non si tratta d’altronde di compiutezza, o incompiutezza formale, infatti ogni opera della Donati è un miracolo di ordine intuito repentinamente nel disordine. Si ritrova, con precisione, il gioco delle forze contrastanti sulla tela, la forma e il gesto, il pennello mosso velocemente dalla mano o dal braccio, cose che non sempre obbediscono all’idea, o alla volontà, ma è vivo invece lo sforzo per mantenere forte il momento del primo contatto emotivo con l’opera, quindi evitare un dialogo forzato evitando le secche della teoria dove non ha ragione di sussistere. Quadri come N° 298, o N° 297, ci dicono che tutto varia e tutto si muove, ciò che appare fermo ha semplicemente tempi diversi del divenire, e la scoperta della complessità del movimento sposta l’attenzione verso i segni e la materia – virati talora sui toni di rosso carnoso – sono strumenti di questo divenire. Su queste tele comincia ogni giorno, inarrestabile un “viaggio”. La mano percorre fulmineamente spazi, riporta alla luce ombre, mentre i segni sono a volte nascosti dalla materia, invisibili, e frugano le ragioni del visibile e dell’invisibile. La prima cosa che ci colpisce in questi quadri della Donati è l’intensità del rapporto col nostro tempo, il senso profondo del nostro essere qui e ora. Si sente che per l’artista ogni sentimento provato, ogni sensazione che le attraversa il corpo, e la mente, sono soltanto il riflusso di emozioni capaci di percorrere il mondo, o, se preferiamo, essa li proietta fuori di sé, li amplia, li moltiplica, dona loro aria e risonanza, affinché essi riescano ad essere specchio per il destino di tutti noi. È come se la Donati ci donasse speciali sensori, per farci accedere totalmente, ad uno spazio pluridimensionale, nel quale è possibile dilatare, rimpicciolire, deformare le nostre percezioni, passare magari per un varco, scavato nel buio della materia, per raggiungere l’ “immensa distesa del possibile” un’insperata possibilità a cui affidarci per uscire dallo spazio che su di noi ha incurvato il tempo della storia. Le opere non procedono pittoricamente per addizione, ma per moltiplicazione: il piacere, il dolore, la tragedia, sono gli estremi che definiscono l’ambito di oscillazione di questo lavoro. Volendo entrare nel merito del secondo gruppo di dipinti proposti dalla Donati – che abbiamo visto nel suo studio poche settimane fa- suggeriamo di osservare lavori come: N° 314, N° 313, N° 315, in cui compaiono materiali inusuali come stoffa da parati, corda, cartone, in cui il “personale” si deposita e si depura: materiali che in parte sostituiscono il segno grafico, decisamente lanciato verso il “fuori” del perimetro del quadro. Con questi lavori la Donati non spezza solo i canoni interni alla pittura, ma continuamente travalica la soglia tra spazio dell’arte e spazio del vivere quotidiano, che si presentano senza finzioni nella loro fisicità e contaminazione sensoriale. Il pensiero e l’azione dell’artista trasformano un processo apparentemente disgregativo, in un evento costruttivo, dove la costruttività non risiede più nella gerarchia delle forme, ma nelle loro contaminazioni, nello stabilire nuovi legami tra quanto prima risultava irrelato. In taluni lavori: N° 311, N° 309, N° 312, il segno, quasi tridimensionale, ci appare lanciato “futuristicamente” verso uno sfondo infinito, e quindi pare conquistare la consistenza di una “cosa”, una vibrante corporeità, che ce lo rivela non più come frammento di linguaggio, ma contraddittoriamente, come frammento di reale, segno che scorre su un inquieto letto di cromie. Superficie e tridimensionalità, rigore geometrico e assemblaggio informale, essenzialità e caos, tutto viene attraversato da una tensione interna, la quale traspare attraverso la componente emotiva di queste opere, che giocano le loro carte migliori tra nascondimento e rivelazione. Le varie disseminazioni delle figure geometriche si dispongono al centro dello spazio, e la loro reiterata ripetizione, determina una plasticità pittorica e un movimento dinamico delle masse cromatiche, tenute sui toni che vanno dal bruno variamente declinato con immissioni di gialli solari, di rossi mediterranei, e di bianchi luminosi, che diventano luogo del reale negato e trasfigurato, secondo le esigenze di un “io” interno che, nella sua ricerca di assoluto, spinge l’opera ai limiti estremi della sua capacità di dire. In questo caso la squillante cromaticità delle parti geometriche sembra provenire da un mondo virtuale, mentre i colori si solidificano e si identificano con la forma, ma forme e colori restano sospesi su un fondo che può essere sia diurno che notturno. Anna Donati mostra, con chiarezza, di non ritenere essenziale per il suo percorso creativo arrivare ad una astrazione pura, di pure e semplici forme geometriche, e questo sta ad indicare che la sua disponibilità non è per l’immobile, ma per l’impulso vitale, per una continua vibrazione e cangiante situazione immaginativa. In questo modo l’artista partecipa al mondo, ne rileva la nascosta, intensa, forza poetica. Ad essa preme esprimere una realtà, che non sia solo mera frontalità del mondo visivo, ma sia anche sostanza stessa del sentimento, in una perenne trasformazione del sensibile, che resti insieme trepida coscienza della vita e del meditare solitario. Il rapporto pittorico tra spazio e colore si esalta per una vibrazione che cresce su sé stessa, mentre il segno, all’improvviso scatta sotto l’impulso di un’emozione, e accende con gioia un’aurora, o un tramonto. Un’ansiosa inquietudine serpeggia però all’interno dello spazio, che si tinge di un clima di stupore per il guizzare imprevedibile dei toni alti che accompagnano lo svolgimento dinamico del percorso segnico. Ciò che noi dunque percepiamo davanti a questi lavori è la lievitazione della materia sottile, la leggerezza, l’assenza di peso dell’immagine. In tutto il suo lavoro la Donati coinvolge la pittura in un testa a testa tra segno e colore, giocati su una timbrica cromatica essenziale, ma raffinata, in un coinvolgimento preciso con il fondo, in cui i segni curvilinei e aggressivi sono sospesi, occupando però la totalità dello spazio, In questo caso sono le parti bianche a determinare la danza del “vedere”, infatti certi toni di fondo col loro silenzio rilanciano la forza del tratto e delle immagini spiraliche, o in transito, che esplodono e implodono nello stesso tempo. Troviamo quindi in queste opere uno spazio-tempo-mutamento, che struttura e modula musicalmente linee, colori, materie, luci, volumi, che conferisce ad ogni centimetro di pittura un ritmo, che stabilisce, accenti, pause, intervalli, armonie e disarmonie, contrazioni e dilatazioni, accelerazioni e rallentamenti. Del resto è noto che uno dei fili conduttori delle esperienze astratte del secolo scorso è riscontrabile nel sodalizio tra arti visive e musica, Infatti per la nostra artista quando segno e colore entrano in risonanza, il suono che ascoltiamo (pur senza udire nulla realmente) ci pare nello stesso tempo indefinibile e allusivo. Per la Donati, creata e maturata soprattutto dal pensiero, la trasfigurazione della realtà oggettiva ed esteriore in una realtà ideale, avviene con l’ordinazione di forme astratte purificate di ogni limite di dimensione effettiva. Chi si trattiene a meditare sui segni dell’artista è colpito dal senso vivo ed organico di compattezza cui sono animati. Impetuosi nel tracciato, efficaci nella rappresentazione immaginaria dell’inconoscibile e del fascino della geometria, essi insegnano a guardare con occhi nuovi non l’arte soltanto, ma anche lo spirito e la vita delle forme inventate. L’opera della Donati non è del tutto controllabile, e assumerla da un unico punto di vista significa neutralizzarla, Accettarla invece nella sua complessità vuol dire perdersi in un arcipelago di isole soggette alle fluttuazioni e alle maree del tempo.
ANNA DONATI: LA SEDUZIONE DELLO SPAZIO. Lo spazio è il suo habitat congeniale, la luce il medium alchemico, il segno la nota dominante di una visione analitica e nel contempo fluida che si sviluppa con rinnovata intuizione e lirica sospensione emotiva pervenendo a scansioni ritmiche e trasparenze cromatiche che hanno il dono della purezza e della leggiadria. In questo universo plastico e formale, dove l’èsprit de geometrie trova la congiunzione ideale con l’èsprit de finesse, si muove con limpida misura Anna Donati, portata per naturale inclinazione a filtrare il dato meramente oggettivo proiettando la percezione ottica in ambito allusivo e aleatorio dove è più forte il senso di libertà e d’infinito. Il suo universo pittorico è un altrove mentale e psicologico che si realizza compiutamente nell’epifania di libere e cantabili forme che si librano nell’aria tiepida con l’eleganza di una libellula. La ricerca straordinariamente feconda di Anna Donati è sostenuta da una lucida concezione di matrice “pitagorica” in cui l’intelletto esercita la sua azione dinamica irrorando lo spazio di segni, linee, cunei, ellissi che sostengono la tessitura di forme in progress. Ora dischiuse a ventaglio, ora sovrapposte ad incastro, ora distese in movimenti centrifughi e centripeti. La persistente tensione all’astrazione è dettata da elementi geometrici e componenti variabili che danno vita ad una sorta di danza cosmica che si sviluppa armoniosamente nello spazio aperto, mantenendo alto il senso della suggestione visiva e dell’appagamento estetico. Le immagini appaiono fluide e leggere, animate come sono da un respiro profondo che le fa sdoppiare e reiterare in mille composizioni e sfaccettature. Ne discende uno scenario inatteso e in continua mutazione, dove la scansione ritmica del colore si esalta nella vibrazione trasparente della luce, sublimandosi in valore poetico. Ad una attenta analisi non sfugge come Anna Donati abbia trovato nello spazio il suo territorio magico, il luogo eletto in cui far transitare pensieri, ideale, sogni. Non per nulla nel nome d’arte Iskra (significa astro) porta impressa la genesi del suo appassionato lavoro, teso a rappresentare, come ella stessa afferma, “un mondo diverso da quello che ci è stato proposto”. In verità, la sua concezione artistica è lontana dalla idea platonica del reale, dalla visione mimetica della natura che i pittori romantici hanno tramandato. Il suo universo, tutto di natura mentale e psicologica, si compone e rigenera all’infinito, secondo una precisa logica che agisce sul supporto ritmico-dinamico della forma e sulla vibrazione luministica del colore. È sorprendente come senta dentro di sé il pathos immaginifico e visionario che possono dare le figure sospese come meteoriti di cristallo nel bagno amniotico dell’arcobaleno. Lungo questo versante prende consistenza un singolare scenario di morfologie sempre nuove in cui le forme geometriche, i nuclei sorgivi i condensamenti espansi, gli intrecci flessuosi ed i simboli significanti (le lettere, i numeri) danno vita alla costruzione dinamica dell’universo, come indicato dai futuristi. Tra le immagini a parametro un ruolo dominante è svolto dalle strutture prismatiche e piramidali, in grado più delle altre di convergere, allinearsi e sovrapporsi in modo omogeneo e differenziato, accentuando l’illusione ottica di plasticità dello spazio, derivante peraltro dalle rifrazioni luministiche e dal contrasto ambivalente dei colori. Sono colori teneri che richiamano le atmosfere dell’alba, colori vividi che svelano una profonda sensibilità serafica, colori luminosi resi in mille tonalità e gradazioni di giallo, rosa, azzurro, verde, marrone, viola, rosso, nero e bianco che si sciolgono in una felice e festosa sinfonia cosmica. Sono queste peculiarità a rendere le opere della Donati, siano esse dipinti, sculture (in acciaio, ferro, vetro) o raffinate incisioni, come un qualcosa di unico e di originale in grado di rilasciare in ogni momento la musica segreta che regola il regno delle misure e dei numeri. Nel sottofondo della visione vibra e palpita il fascino sottile della “divina proporzione” elaborata con geniale maestria da Piero delle Francesca e da Leonardo, l’incanto magico della “sezione aurea” che si focalizza entro ed oltre il tempo e lo spazio convenzionalmente definiti per farsi modulazione lirica dell’universo. Dopo oltre trent’anni di fervida attività con slittamenti nel design, la grafica, la moda, l’architettura, Anna Donati mantiene integra la voglia di indagare la realtà invisibile, di scoprire l’altra dimensione. Il suo osservatorio è in continuo fermento, la sua mente vola sempre più in alto, laddove è più forte il concetto d’infinito. Nella sua accezione semantica lo spazio diventa per lei una inesauribile fonte d’ispirazione e di creatività. Se “per vivere abbiamo bisogno di estensioni, di prospettive, di orizzonti” poiché “lo spazio è indispensabile quanto il tempo alla fioritura della vita”, come afferma lo psicologo francese Eugène Minkowski, ecco spiegata la motivazione della scelta estetica di questa figlia del cielo che descrive ed impagina con ordine logico e freschezza d’immagine mondi pensati e mai posseduti. Quella di Anna Donati è un’arte razionale e speculativa che nell’astrazione conclamata delle figure geometriche e delle sollecitazioni emotive e sensoriali trova il medium espressivo più congeniale. È uno stile pensoso e organico, quanto surreale e visionario che suscita stupore e seduzione come uno spettacolo di natura inatteso. Il suo essere donna, sensibile e intuitiva, stimola ancor più il suo essere artista, fantasiosa e dinamica, tesa sempre a scoprire l’armonia che regola le apparenze visive, la logica che le sostiene. Sono in molti a rilevare nella sua produzione tracce trasversali con il Suprematismo di Malevic, le Compenetrazioni iridescenti di Balla, l’astrattismo lirico di Kandinskij, le fantasie cromatiche di Klee, le trasparenze di Pevzner e Gabo, le soluzioni cinetiche di Victor Vasarely, e perché no? con le strutture “viventi” di Calder (i Mobiles) e le giocose invenzioni di Bruno Munari (le Sculture da viaggio). L’artista guarda con vivo interesse alle avanguardie storiche e ai movimenti del Novecento, ma senza lasciarsi condizionare, rapportando ogni riflesso linguistico al suo modo di essere e di pensare. Lungo questa linea di studio e di esplorazione Anna Donati ha bagnato il pensiero evoluto, plasmato l’estro irrequieto, calamitato l’ansia di volere in ogni fase della ricerca “costruire”, “arredare” e “musicare” lo spazio vuoto con forme ideali perfette, tese al raggiungimento del rapporto bilanciato tra istinto e calcolo, tra logica e immaginazione. Il suo spirito puro e sognante, rilevabile nelle incisioni a secco (Tabulae temporum) e nelle Trasparenze cromatiche del vetro ultrachiaro, e la sua fantasia ludica e inventiva, rintracciabile nelle versioni di Spaziando, Dimensionando, Camminando, in Black & White, negli elementi primari di Aria, Acqua, Terra, Fuoco, negli smalti, i polimaterici e gli acrilici di ampio formato, percorsi da intrecci di poliedri specchianti e di forme lievitanti, costituiscono i poli estremi di una autonoma e spiccata personalità che “racconta” la sua “infanzia di cielo” con trasparente candore e libera misura espressiva. Tutta la sua opera è un sommesso cantico di purezza e d’armonia che si esalta nella dimensione trasparente e vibratile dello spazio. Ma quello che più colpisce è il senso estetico della bellezza pura che dà respiro e smalto alle leggiadre e poetiche forme di una artista umile e sapiente che nelle “segrete stanze” dell’anima continua a declinare spaziali scenografie di luce e di colore. Forse è qui che Iskra cerca la scintilla della creazione.
L’ASTRAZIONE FEMMINILE DI ANNA DONATI. È dai dripping dinamici e viscerali di Jackson Pollock che l’impazienza di stendere il colore si è depositata nella virilità tutta mascolina del gesto. L’atto fisico associato al dipingere rilancia la pittura alla sua primordiale facoltà espressiva. Pura, diretta, istintiva. Il pennello, la mano, sovrasta le strutture di pensiero per lanciarsi libera e incondizionata nel fare. Ricerca un piacere intenso, necessario. Sulla tela vive la natura arcaica di sentimenti ed emozioni. Niente di più diretto e automatico del segno strappato al colore, trovato tra le sfumature di materia tesa e fluida, intravisto in miscellanee di linee e segni che chiamano in causa ben altri fattori che il tempo e lo spazio. Perché il tempo è quello del suo farsi, consequenziale all’intuizione immediata del gesto, e lo spazio, circoscritto dalla tela, si dilata in vortici e buchi neri che implodono ed esplodono chiamando a sé forze estranee alla corporeità molecolare del reale. In parti uguali convivono astrattismo ed empatia – così come titolava Wilhelm Worringer il suo testo critico (1908) dando voce alle teorie dell’arte astratta – vale a dire una giusta dose di caos apparente e di logica geometrica. Si parte dal reale per poi auspicarne un necessario allontanamento. Frank Kupka, tra i pionieri del movimento astratto nei primi anni del novecento, riconosceva nell’astrattismo il giusto medium per congelare tutte le categorie estetiche e trasportare l’arte in un universo più spirituale, dove cioè spazio e tempo si ridefinissero nell’empasse emotiva che l’artista era in grado di stabilire con il quadro. Anna Donati discende certo dalla famiglia dell’astrazione classica, ma aderisce a tale sensibilità firmando il matrimonio, davvero innovativo, di informe e decorazione. Rimette in atto il macchinario espressivo dell’action painting deviando l’attenzione, standardizzata a una cosmogonia maschile, del piacere “tattile” della pittura. “Le codificazioni culturali dei “corpi cosmetici” della femminilità e della mascolinità vengono citati e dislocati, al fine di costruire un “codice” sistematico oltre il genere, una terza zona di differenze e di molteplicità”: con queste parole una pittrice d’oltreoceano, l’artista Lydia Dona, dichiara la liberazione dall’oscurantismo del modello “maschio-dominante”, dettato dell’astrattismo americano, combinando gli stili (informale, spazialismo, espressionismo astratto) e identificandosi in un “altro”, una terza categoria dove non esiste l‘out-out imposto dal modello. Ugualmente Anna Donati si colloca al di fuori, in un linguaggio “altro” che sposa le regole dei maestri – da Klee e Kandinsky – si ibrida con forme più concettuali – da Burri a Fontana scardinando le ragioni storiche dell’eroismo “uomo-pittore”, rivendicando quella piacevolezza ritmica che si fondeva con la lucidità raziocinante dei tempi della “pittura pittura” e, più tardi, dell’astrazione povera di cui scrisse Filiberto Menna. Donati ha pratica di incisione, è un’abile disegnatrice e conosce la scultura – ha lavorato vetro e metallo realizzando architetture utopiche o antropomorfie geometrizzate. Nella pittura mischia le carte e alza la posta in gioco. Con quest’ultimo ciclo, tra innesti materici, esplosioni cromatiche, linee taglienti e crittografie fluide si delinea una mappatura eterogenea di puro godimento estetico. “Non ci interessa che un gesto, compiuto, viva un attimo o un millennio, perché siamo veramente convinti che, compiutolo, esso è eterno”; è il gesto prima ancora dello spazio a interessare Lucio Fontana. Siamo nel 1949, quando il maestro dello spazialismo guardava ancora alla materia in senso stretto, la stessa poi esplorata da Alberto Burri. Nei bozzetti del complesso ciclo organico de “Il viaggio” (1979) e nel successivo “Sestante” (1982) si deroga alla “rappresentazione” della materia, per linee che circoscrivono forme geometriche spontanee, l’obiettivo di un equilibrio interno al quadro. Con l’innesto di corde – utilizzate come segni grafici alla maniera di un Enrico Baj – juta e plastiche colorate, Donati aggiunge al principio dell’astrazione formale “burriana”, una certa poesia visiva affine a quella di Agostino Ferrari. Se da una parte è la musicalità wagneriana inseguita da Kandinsky, dall’altra è la scrittura di un abbecedario letterale e numerico a strutturare il quadro: un desktop sul quale montare un collage di segni, lettere, numeri, o più semplicemente di geometrie e aree cromatiche. Il suo lavoro investe a 360 gradi le tecniche per temperarle secondo equilibri geometrici/gestuali. Anna Donati ricerca nelle sue soluzioni matematiche – numeri al posto dei titoli – l’equilibrio teso tra forma ed espressività. Trapezi i suoi, tavole curve e angolazioni taglienti, già di per sé “concetti spaziali” ideali nella scelta del formato del supporto. Come altri amici e colleghi astratti contemporanei, la sua è una pittura da intendersi come categoria aperta alle sperimentazioni. Un’astrazione moderna, mai rigida, banalizzata ne tantomeno scontata. Superato l’out-out di femmineo e mascolino, nei lavori di Donati si ritrovano le complesse relazioni cromatiche di Tommaso Abts, rigorose e disciplinate, con una certa passione alla forma più organica di Thomas Scheibitz, e fluida, di Brice Marden. L’esperienza “fisica” della creazione ce la ricorda l’artista australiana Emily Kame Kngwarreye: dipingere è come cantare, un flusso ininterrotto di forme e colori come di suoni.
IN PRINCIPIO FU LA PUREZZA. In principio fu la purezza: questa la tesi di Anna Donati o meglio di Iskra. Una purezza scolpita nello spazio aperto, poi consacrata nei secoli da quanti, abiurando il privilegio di nutrire sentimenti diversi da quelli della plebe, si convinceranno e convinceranno ad agire prendendo il via dal basso, dalla base della colonna. La purezza, iperspazialista, respira in lei di un senso arcano incisa com'è, dopo un breve flirt loico, sul foglio intemerato felice di recepire miti che architetture in bassorilievo ove è dato leggere concentrazioni di segni/sogni guardiani e protettori d'una plasticità labile eppure positiva. Una cartella di incisioni a secco epifania di un solipsismo (solus ipse) linguistico-acromatico, questa di Anna Donati con nove passaggi dinamici, a guisa di aggettivi qualificanti il concetto di purezza: siamo a proporre l'analogia con le nozioni trascendentali (ens, res, unum, aliquid, verum, bonum) di cui parlavano gli scolastici medioevali. I nove fogli incisi sono una pluralità di solitudini, basilari per attingere la metafisica della purezza. E sono anche i nove fogli (va ricordato che il numero nove, riconducibile ad una struttura triadica, indica i cori degli angeli e le nove sfere della cosmogonia medioevale) memento di quel latine loqui che equivale ad illuminata apologia delle nostre radici, vero mantello protettivo in grado di destabilizzare la precarietà nell'operazione artistica. Dunque purezza latina che mal sopporta la barbarica teoria d'un modello globale; purezza palpitante al vento per allusività di aggregazioni architettoniche, che pur nell'apparente labilità, valorizzano la stabilitas delle basi ioni che in una rinnovata prosperità della cultura mediterranea ed umanistica. Anna applica sine glossa i principi dello spiritualismo in questo orizzonte metodico di purezza calcografica e svolge attività chirurgica nelle anatomie strutturali comprensibili soltanto a chi abbia consuetudine con l'arte monastica e, parrebbe strano, militare ove naturalmente ci si dedica all'idolatria delle armi, sgargianti e necessarie per i rituali di beluinità, a cui sempre fanno seguito successive fasi di vichiana rinascita delle arti. Tradurre l'eco storica e i sentimenti vitali legati alle radici culturali, che vanno dal patrimonio architettonico, al risveglio dell'interesse per una lingua normativa di tutta la civiltà occidentale, com'è il latino, passando per l'aureo perimetro del mito che al dire di Creuzer racchiude l'eterna verità dell'uomo e del mondo: tradurre questa emozionante e nmninosa costellazione mitopoietica in scansioni astratte è stato il caparbio intento della severa/dolce artista marchigiana, che in queste Tabulae Temporum ha invocato a testimone della sua ars combinatoria l'aurora e la sparizione serotina oltre le ciglia, come dire il mito di cui sopra e il solenne gaudio degli accadimenti ultimi. Iskra strategicamente in questi fogli istituzionali del suo pensiero ha ingaggiato un duello; documentato, questo duello mirabile e senza retorica con le superfici prive di stimoli nelle sue varie situazioni operative: con lo spazio prioritariamente, al riparo di trasalimenti, con il vuoto poi in preda all' afasia, ovvero all'impossibilità di orazioni neppure funebri, ed ancora con la storia, popolata da funzionari lotofagi e anarchiche sirene, con filoni di pensiero privi di orgasmi genesiaci e di spasimo che annientano ogni desiderio di flussi vitalistici. Infine con il sonno, antagonista di Phronesis o Sophia che dir si voglia, interdetto a Freud, vista la sua ferocia nichilista, paragonabile a quella dei tori di Pasifae e Lorca. Il risultato? Il riverbero aurorale di una eredità protetta dalla memoria, in seguito alla presa d'atto della dialettica tra una forza aspra e infernale e una virtù dolce e celeste, a cui fa riferimento J. Bònme nella sua nota opera "Aurora nascente". Memoria che quindi si propone quale Kàlliste in contemplazione della terra beata della verità.
ANNA DELLE TRASPARENZE A COLORI. Come per la maggior parte dei pittori, Anna Donati sin da giovanissima ha sentito la necessità di dedicarsi all'arte. Cioè ha avvertito quel richiamo interiore che i romantici chiamavano vocazione. In altri termini ha capito che per realizzarsi appieno doveva procedere sulle strade dell'arte. Ed è ciò che ha fatto, iscrivendosi all'Istituto d'Arte di Macerata, passo obbligato per chi, come lei, sin da quando aveva quattordici anni aveva lavorato nel mondo della moda. La sua capacità disegnativa, poi, l'ha portata nel campo dell'arte applicata, nella fattispecie la grafica pubblicitaria, quindi in studi di architettura, tutte esperienze durante le quali ha potuto sempre meglio registrare la sua predisposizione al disegno, passando da quello applicato a quello geometrico ed a quello creativo, dotandosi (almeno inizialmente) di un bagaglio tecnico e linguistico poi arricchito nei tre anni di frequentazione dell'Accademia di Belle Arti, sogno a lungo accarezzato e che si avverò solo nel 1974 con l'istituzione dell'Accademia a Macerata, più prossima a Civitanova Marche, dove aveva già frequentato l'Istituto d'Arte, per cui suo padre, che anni prima per quanto riguardava l'Accademia di Belle Arti di Roma s'era opposto, accettò che vi s'iscrivesse. Infatti è durante gli studi all'Accademia che Anna ha completato l'appropriazione delle tecniche già praticate, arricchendo il suo bagaglio nell'esercizio dell'incisione su vetro, dell'acquaforte, della pittura ad acrilico e dell'acquarello, tutti aspetti che, con 7 esemplari per ciascuno, volle presentare nel 1979 in occasione della prima personale, tenuta nella Galleria Annibal Caro di Civitanova Marche, divenuta sua città di residenza. Cominciava così l'attività espositiva della Donati, che tuttavia solo dal 1997, anno in cui, oltre alla partecipazione a due collettive nella città di residenza e due personali, sempre nelle Marche, s'è fatta continuativa, dato che nell'arco dei 18 anni passati tra la prima personale e quella di Ancona, una sola volta aveva esposto, per la precisione nel 1985 ed ancora a Civitanova Marche. Ovviamente in questi 18 anni Anna aveva proseguito le sue ricerche nell'arte, con una non indifferente propensione per l'arte applicata, come le incisioni su vetro, eseguite negli anni 1991-1996 stanno a testimoniare. In esse ella coniugava esprit de géométrie e ottica decorativa in una sorta di «topografie» dei territori del disegno. La ricchezza dei giochi di luce sulle superfici incise viene impreziosita dal colore diffuso, che svaria dall'oro dei vetri dei primi tre anni del Novanta (091, 092, 093), con emersioni di decorazioni in bruno (094, 1995) e affioramenti di verde (089, 1996), al cilestrino di 090, altro vetro del 1996. A ben guardare in questi vetri incisi vengono messe a buon frutto, ma con tutt'altre finalità, le esperienze consumate nel mondo della moda e del disegno architettonico, tanto che, se le prime sono reperibili soprattutto nel disegno di 094, che è di forte collateralità con certi disegni di stoffe, non prive di una personale rimeditazione su soluzioni astratte del Kandinsky maturo, le seconde in filigrana percorrono fino al 1996 tutti i vetri, compreso quello del 1993, «topografia» più geologica e solo apparentemente priva di agglomerazioni riconducibili a nuclei urbani. Ciò che, tuttavia, emerge da queste prove è una particolarissima attenzione allo spazio ed alla sua orchestrazione. Attenzione che si riscontra, ancorché senza l'horror vacui dei vetri incisi, anche nelle opere pittoriche, che appunto nel 1996 ricevono il testimone delle ricerche spaziali da quelle attuate sui vetri incisi. E ciò spiega le trasparenze che contraddistinguono l'acrilico Forme nello spazio, costruito con tre sovrapposti “muri di cinta” di carta spiegazzata, come stoffe plissettate, né più né meno di come lo è (ma solo nella parte centrale) il verde elemento che nel coevo Spazio Pianificato si snoda a serpentina su uno statico fondo scandito da “pianificate” cromogeometrie. La plissettatura si trasforma in scalinata, con uno strappo inferiore, nella grande tela Modulo Spaziale del 1997. Qui i colori cominciano ad assumere una funzione di differenziazione, che comporta l'intrusione (per non dire «taglio») del rosso tra il violetto della parte di sinistra ed il verde di quella di destra della «scalinata». In quest'opera lo spazio è ascensionale mentre in Spazio struttura, una delle opere quadrate, ma orientate con gli angoli nel senso dei quattro punti cardinali, dipinte nel 1997, le morfologie assumono aspetto di scaglie che a mo' di organetto si dilatano dal centrale nucleo giallo, venendo attraversate da un una sorta di cucitura che somiglia molto ad un filo spinato. Ed è un'anticipazione di altri esiti orizzontali e meno cromaticamente variati, come le tre bianco-grigio-celeste-nere bande plissettate di Spaziando 095 del 1998. Nella serie Spaziando, Anna Donati sembra voler utilizzare le sue forme-colore in termini più pittorici, accorpandole in modi diversi suggeriti dalla loro differenza strutturale. Ora sono due ascensionali continuum spiraliformi, orchestrati uno sui rossi e l'altro sui verdi, che riverberano luci interiori e s'inclinano l'uno verso l'altro, facendo riaffiorare alla memoria un'eco del Monumento alla Terza Internazionale di Tatlin (Spaziando 012, 1999), già individuabile nel precedente Spaziando 013 del 1998, dove la riverberazione della torre inclinata era in azzurro, con maggiori effetti di trasparenze. Ora diventano una sorta di flutto geometrico-cromatico sempre giocato sulle trasparenze (Spaziando 023, 1999), alla stregua del coevo Spaziando 031, dove forme ondeggianti con sottintesi centrifughi al centro si chiudono a mo' di foglie e petali. Ed ecco che in Spaziando 026 (1999) gli ovali «petali», che svariano dal rosa pallido al rosa pieno, si dispongono a formare un fiore di luce-colore, che ha per suo contraltare Spaziando 025 del 2000, acrilico in cui le trasparenti sovrapposizioni delle forme lanceolate rosa sembrano uscire da un vaso e nel contempo ad esso sovrapporsi, come in una veduta caleidoscopica, che forse non è del tutto estranea la soluzione visiva di questo dipinto. La Donati insiste sulle trasparenze non soltanto per le ragioni già indicate, ma anche perché esse permettono nuove soluzioni spaziali. E per una come lei, che concepisce la superficie delle tele come campi su cui articolare e far spaziare le sue forme cromatiche, ovvero creare rapporti spaziali vari e variati con l'ausilio delle differenziazioni luminose dei colori e della geometria liberamente articolata, si comprende quanto importante strumento espressivo è la trasparenza. Come abbiamo appreso dalle considerate molteplici esperienze e attività praticate, Anna Donati è un temperamento irrequieto. E pertanto non ama adagiarsi su un modulo formale od un motivo compositivo. Nel suo indagare i comportamenti e la resa delle forme nello spazio bidimensionale della tela, ella escogita altre morfologie, nuove variazioni cromatiche, e «spazia» in continuazione, orientandosi con la bussola del proprio esprit de géométrie, nel vasto territorio della pittura aniconica. Nel 2000 per una segreta e reciproca attrazione le morfologie coniche e piramidali, ma di articolata struttura, cercano di incontrarsi sopra multicolori muraglie plissettate. Ne nasce una sorta di bacio dei loro vertici sia in verticale, com'è in Spazzando 019, sia in orizzontale, com'è in Scatola 046, dove il bacio delle due forme verdeggianti è sovrastato dall'intrusione di una forma in rosa, che quasi per gelosia con il suo vertice in scorcio «punta» lo sguardo del fruitore, determinando con la sua radialità centrifuga interferenze nei confronti delle direzioni degli elementi in verde. Sulla scorta di questa frontalità centrifuga, poi, Anna costruisce nel 2001 le metalliche trasparenze dei «fogli» spiegazzati e sovrapposti di Spaziando 097. In quest'inizio del terzo millennio assistiamo al cimento dell'estro cromo-geometrico, sempre teso a modificare le composizioni e gli esiti, modulando forme, ora simili, ora contrastanti. Qui c'è uno sfogliare in rosa-arancio che fa corona all'ogivale incontro delle sottostanti traiettorie formate da scie cangianti dal grigio-azzurro alle differenti gradazioni del bruno (Scatola 044, 2000). Là lo sfogliare si fa spiralico con gamme in rosa e rosso a mo' di euclideo ghirigoro (Spaziando 058, 2001). Qui c'è un ondeggiare di multicolori forme triangolari con i lati curvi, assimilabili più che a un paesaggio marino ad una veduta di cime di montagne concepita da un’immaginazione cromogeometrica (Spaziando 056, 2001). Là c'è l'incontro in uno spazio rosso tra due solide conformazioni scheggiate, una azzurra e l'altra violetta (Spaziando 064, 2001). E ancora, per indicare altre soluzioni cromatico-geometriche, ecco una sorta di euclideo levar del sole di cristallina sintesi dell'alba e dell'aurora nelle sovrapposte trasparenze a tagli rettilinei di Spaziando 099 del 2001. Ed ancora ecco il coevo Spaziando 054, in cui al centro risalta il rosso e rosa cuspidato poligono irregolare dalle sfaccettature a mo' di diamante, incastonato nelle centripete forme triangolari verdi, bianche, grigie e giallo oro. Come i musicisti compongono ed orchestrano le loro melodie e sinfonie, utilizzando le sette note ed i relativi toni alti, bassi e gravi, mescolandoli con i bemolli, Anna Donati orchestra le sue composizioni pittoriche servendosi dei sette colori dell'iride e della gamma dei loro semitoni, che mescola per ottenere le volute variate articolazioni cromospaziali, riuscendo spesso a creare sonorità visive anche fluenti. E non c'è alcun dubbio che le serpentine conformazioni tubolari che s'intrecciano in Spaziando 102 (2001) con i loro toni chiari, medi, bassi costituiscono una fluente musica visiva, propedeutica alla serie di opere del 2001, quali il giallo ocra Spaziando 103, il verde Spaziando 104, il rosa Spaziando 105 ed altre di simile ideazione (e penso a Spaziando 110 ed a Spaziando 113), tutte opere che definirei «panneggi» cromatici. E non è improbabile che tali «panni», che s'avvolgono su se stessi (Spaziando 104), si annodano (Spaziando 105, Spaziando 113), o s'intersecano volando nello spazio (Spaziando 110), siano frutto di un ritorno del rimosso delle pratiche consumate nell'ambito della moda. In altre parole che tali conformazioni cromospaziali scaturiscano dalla memoria delle suggestioni avute nella manipolazione delle stoffe colorate che inconsciamente hanno fatto introiettare nell'immaginario della Donati la loro specifica malleabilità, poi recuperata, a furia di cercare nuove forme e conformazioni cromospaziali, in un'ottica pittorica. Che la nostra artista marchigiana abbia una particolare «memoria» introiettiva lo attestano i continui recuperi di motivi e di morfologie per far procedere certi rami del suo discorso. In questa prospettiva, per esempio, le traiettorie cromatiche, pressoché viarie, di Spaziando 109 vanno considerate consequenziale sviluppo del considerato Spaziando 102. E, se tale sviluppo è avvenuto per scioglimento dell'intrico tubolare di Spaziando 102, il ritorno dell'esigenza di comporre per forme curvilinee nel 2003 ha sortito nell'irrequieta mente di Anna veri e propri dialoghi ed abbracci di tubi metallici, con tanto di gomiti plissettati similmente a certe opere precedenti (ed è ancora un recupero di un motivo già praticato), com'è nel monocromo azzurro 064 e nel monocromo rosso 065. È da queste due prove di qualche allusione volumetrica che nasce l'acrilico e polimaterico 066, in cui, oltre al ritorno alla policromia, la pittrice semplifica le forme tubolari con una stilizzazione dagli esiti grafici che rasentano l'ottica pop. 066 è l'anticipazione della segnaletica tubolare in rosso (067), in azzurro (070) ed altri colori, che, per quanto attiene a 070 ricorda certe ricerche dello scomparso Luigi Senesi, ma più oggettivate nelle bande e pertanto prive delle vibrazioni luminose del trentino, il quale con Aldo Schmidt è stato uno dei protagonisti del gruppo Astrazione Oggettiva. A ben considerare, si trattava di una sbandata antisoggettiva, che privava la Donati di ogni forma di trasparenza. Ed era più che logico che non potesse soddisfare l'irrequieto laboratorio ideativo di forme della nostra artista, la quale, infatti, nel 2004 ritorna alle trasparenti agglomerazioni di elementi geometrici in una sequela di grandi formati quadrati e rettangolari, di cui, per ragioni di spazio espositivo in quest'occasione solo pochi esempi è dato proporre. Le trasparenze generano luce in quella sorta di rosa euclidea che è il cm. 150x150 053, il cui luminoso centro intriso di bianchi e gialli digrada in toni arancio fino al lilla, bruno e collateralità, senza perdere le trasparenze, ma solo attenuandole. E se i suoi precedenti pari formati si attestavano su trasparenze più vitree, com'è nelle geometriche rifrazioni in bianco-grigio di 054, di qualche eco cubisteggiante (per l'assenza di ogni riferimento al paesaggio non riconducibile a Feininger, come le opere del 2003 non lo erano al «tubismo» di Léger), oppure mostravano una predilezione per la policromia, com'è in 055, connubio di grigi, celesti, rosa, bruni, arancio, gialli rappresentati in fasci, sfaccettature e parapoliedri, ed in 056, composizione di svolazzanti strisce spiegazzate viola, rosse, gialle, azzurre, verdi; e, se nei precedenti formati quadrati erano le trasparenze a dominare, dicevo, nei formati rettangolari la Donati passa dal rispecchiamento della fuga del ventaglio rosso nel sotto stante ventaglio giallo-arancio (058) al «libro» celeste spalancato con le «pagine» mosse dal vento (059) per approdare alle tensioni di quella sorta di «ragnatela» di trasparenze geometriche verdi su fondo dai colori caldi (060), nel fuori misura 063 il gioco delle rifrazioni trasparenti del motivo curvo celeste e violetto non solo si fa più serrato in una sinfonia di variazioni a losanga, ma addirittura avido tanto da fagocitare l'elemento verde, sorta di «guida» che s'inoltra nella grotta dell 'universo delle geometrie di Anna Donati, dove l'articolazione prismatica dello spazio genera dal suo stesso seno un tempo scandito visivamente dalle trasparenti intersezioni delle forme geometriche. Giustamente Carlo Melloni ha parlato di «plusvalenza ottimale», ottenuta con l'elaborazione di «forme che hanno la vibratilità delle scansioni (il tempo) di gradienti luministici, accanto a forme che meglio definiscono, plasticamente, il senso dello spazio». Ma come nella vita anche nell'arte il primo amore non si scorda mai. Per Anna, lo abbiamo visto, il primo amore in arte è stato il vetro. Quindi non c'è da stupirsi se di recente al vetro è tornata. Non più per incidervi forme della geometria, ma per ritagliarlo in modo da ricavare digradanti sagome geometriche da assemblare per ottenere lavori dalle trasparenze oggettive. In queste fragili opere la Donati è passata dalla composizione alla costruzione, dalle accese policromie alle discrete monocromie acquamarina dovute al colore del materiale stesso, dalle variazioni alle iterazioni delle forme geometriche, dalla captazione della luce aerea alla riflessione della base-specchio che ricomplica visivamente le costruzioni dei suoi «fogli» vitrei, ora accostati scalarmente a creare la cuspide di un'ipotetica cattedrale (075), ora distanziati in sfogliamenti «altri» rispetto a quelli tante volte dipinti (081), ora contrapposti nelle loro sagomature a immagine e somiglianza delle lingue di una fiamma (077), per non dire delle altre varianti, qui non presentate in ragione della loro estrema fragilità, tutte ottenute ritagliando il vetro secondo i criteri delle sagome delle carte veline per sartoria. L'artista marchigiana in queste costruzioni in vetro è rigorosamente analitica. Esse, infatti, sono frutto di attenti assetti e di calcolatissime «misure a crescere» delle forme ritagliate in vitro. Non si può, certo, per quest'ultima fase dell'arte di Anna Donati parlare di scultura, perché gli elementi che costruiscono le differenti conformazioni trasparenti sono sempre distanziati tra loro, facendo interferire lo spazio con la percezione delle forme ritagliate. Insomma siamo agli antipodi non solo delle colonne tortili di vetro di Mario Ceroli, intitolate Albero della vita ed esposte nel 1992 alla XII Quadriennale, ma anche delle Sculture spaziali, dei templi e delle isole di vetro della giapponese Oki Izumi, proprio perché la Donati non incolla le sagomate lastre di vetro per creare trasparenti volumetrie tattili. Come notato, in tutto il suo percorso fino ad oggi compiuto, a guidare Anna Donati sono stati il colore, anzi i colori nelle loro cangianti modulazioni tonali, l'amore per le trasparenze, che partite dal vetro sono passate alla pittura per riconvergere sul vetro, e l'esprit de géométrie, un esprit liberamente estroso e perciò nient' affatto condizionato dalle norme d'Euclide e tanto meno dagli esempi tratti dal tradizionale astrattismo geometrico, che ovviamente ella conosce, ma non segue, per avere la libertà di rielaborarlo secondo i dettami della sua irrequietezza che rende costantemente mobile il suo estro ideativo ed inventivo.
Anna Donati: la libertà di inseguire l'assoluto. Quale che sia la fase, il capitolo pittorico da considerare (e se ne accumulano ormai in discreta quantità), nell'esperienza creativa di Anna Donati si evidenzia un fare che è intento continuo di libertà. La necessità di esprimere a suo modo quel che giudica "suo" per sensibilità e vocazione, è la molla che la spinge a una ricerca che, pur essendo in sintonia con la storia e con l'attualità (che è data dal nuovo, dall'invenzione), è personale, svincolata sia dalle mode del fare, sia dai modi del proporre: una libertà incondizionata "costruita" nell'assoluta individualità, nell'originalità. Il dato naturalistico, che qua e là affiora nelle sue composizioni, sembra premeditatamente sfuggito e superato, in virtù di tale logica di autonomia, perché, appunto, le condizioni attese debbono essere svincolate da ogni possibile condizionamento, da una qualsiasi tentazione mimetica e imitativa, ma è comunque presente e reale più di quanto non lascino credere le apparenze. La sperimentazione è la situazione in cui si verifica meglio se stessi: una condizione di solitudine dove dolore e gioia, esaltazione e rinuncia si avvicendano, assurgendo all'epicità d'un esclusivo sentire. La poesia ha bisogno di questa solitudine per un suo assoluto; la Donati lo sa. Le cortine di cristallo, le mille facce di iridescenti poliedri che vengono proposte in questo ciclo "Spaziando", sono specchi, sono pietre filosofali, sono osservatori affacciati su uno spazio infinito. Il colore è l'intermediario "amico", messaggero di luce, propiziatore di armonie. Gli schermi che filtrano e si frappongono alla libera visione, al giungere diretto della luce, in realtà sono vie luminose. li colore è anch'esso luce, perché è un colore trasparente che la lascia penetrare, la conduce. In questo clima sincretico anche la forma ha un ruolo cangiate e dinamico, nel senso che sembra determinata dal movimento stesso (altra componente essenziale). È questa la logica complessiva ben indicata da Luigi Dania quando afferma che: "Nella apparente semplicità delle sue creazioni, la Donati tende a collegare ordine, armonia, proporzione che sono le caratteristiche peculiari della bellezza". E l'ordine sembra spesso capitolare all'armonia, grazie anche alla complementarità delle forme e dei colori, alloro assiduo dialogare. La bellezza, la grazia, l'eleganza della composizione costituiscono insieme la sola condizione in cui la Donati accetta di rinunciare alla propria libertà, la sola in cui la sua ribellione si acquieta, quella dove il suo spaziare trova, se non una stabile dimora, almeno una direzione e una speranza da inseguire.
Il Piacere della Forma. Perché mai avranno voluto dividere l'anima in due: da una parte la ragione e dall'altra il sentimento? Certo che Platone ha le sue responsabilità. Con la separazione del mondo ideale dell'intelligibile (superiore e perfetto) da quello corporeo sensibile (inferiore e imperfetto in quanto copia del primo), dell'Iperuranio dall'Oratòs, egli ha costituito le premesse per la separazione in due frazioni della realtà tutta e dell'essere umano in particolare. Due mondi a cui corrispondono due porzioni dell'uomo: l'anima e il corpo, secondo il platonismo ereditato ed elaborato da Paolo di Tarso e da lui inserito nell'ottica e nel pensiero cristiani. La conseguenza di ciò è che anche lo spirito umano si frantuma scomponendosi in quelle che, in altre circostanze, ho chiamato le coordinate cartesiane dell'individuo: la ragione e il sentimento, appunto. Lo stesso Platone, però, ha immaginato che i due mondi debbano relazionarsi fra loro attraverso la partecipazione, detta Metessi (per la quale le cose sono partecipi delle essenze ovvero delle idee), la Coinonìa e la Parusia (secondo cui le idee e le cose sono quasi mescolate anche se le prime trovano nella materia un limite alla loro perfezione), infine il Demiurgo (un essere divino, inferiore a Dio, che prende a modello le idee per plasmare la materia mediante la mimesi che produce le cose, imitazioni delle essenze ideali). lo preferisco rifarmi alla concezione olistica del mondo, cioè unitaria. Così mi pare di poter dire che l'uomo (al pari di tutto il creato) sia un'unità inseparabile e dunque che ragione e sentimento siano, al massimo, due parti da connettere per comporre l'individuo, come fossero due semisfere le quali si aggiungono, l'una all'altra, per dar corpo alla sfera. In altri ambiti dell'attività spirituale la medesima divisione tra ragione e sentimento è stata creata tra ragione fede. Ma anche in questo caso il tomismo di Tommaso d'Aquino risolve egregiamente il problema (a differenza delle tesi di Averroè, partigiano della doppia verità) affermando che l'unicità di Dio esclude l'esistenza di due verità contrastanti (e dunque di due dimensioni dello spirito): pertanto se una è la verità, unico è il sapere, diventando inconcepibile ogni contrapposizione tra ragione e fede. Le considerazioni di cui sopra costituiscono una premessa ad alcune riflessioni sull'espressività grafica, pittorica e plastica di Anna Donati. Qualcuno potrebbe dire che la premessa è lunga, ma non lo credo, convinto come sono che il tempo dedicato al ragionamento non sia mai troppo ma, al contrario, sempre poco. Dunque la Donati è un'appassionata della forma, in particolar modo di quella geometrica. Stando alla lettera del neoplatonismo ella inclinerebbe verso la razionalità totale a danno delle opzioni sentimentali. Perché, nel solco della solita cultura della separatezza, il calcolo, la misura, il rigore che derivano dalla frequentazione della geometria sarebbero orientati in tutt'altra direzione rispetto al fremito, alla vibrazione, al palpito. Questo perché la geometria - come ci dice il suo significato etimologico - consiste nella misurazione e perciò afferisce alla sfera della razionalità e non già a quella dell'emozione. Ma noi non ci stancheremo mai di dire e ripetere che sono infiniti gli esempi che smentiscono una simile contrapposizione duale. Partendo da molto lontano (VI secolo a.C., quindi cento anni prima di Socrate) pensiamo a Pitagora e alla sua scuola di Crotone che riconoscono nel numero una dimensione non-materiale di sapore religioso che giunge a definire l'immortalità dell'anima. Sicché le raffigurazioni geometriche e le relazioni numeriche contengono la presenza di questa immortalità. Giungendo più vicino a noi (sia pure relativamente visto che trattasi più o meno di circa seicento anni fa, cioè del XV secolo) e riferendoci propriamente all'arte pittorica, guardiamo a Piero della Francesca (1410/15 - 1492) e alla formidabile poesia che scaturisce dalle sue mirabili forme alle quali sono sottesi il calcolo, l'ordine, la geometria. Nella modernità, poi, sarebbero da citare: Piet Mondrian (1872 - 1944) il quale, pur opponendosi decisamente alla celebrazione del sentimento in nome dell'oggettività dello stile e del rigore matematico, finisce per suscitare, attraverso geometrie intransigenti e colori primari, emozioni nei fruitori (in arte contano le reazioni che si è capaci di scatenare negli animi dei riguardanti, non già le teorizzazioni degli autori); Wladimir Tatlin (1885 -1953), anch'egli in teoria, alieno alle intenzioni passionali ma in pratica suscitato re di emotività, al pari di ogni altro creativo; Kasimir Malevic (1978 - 1935). Ritornando alla nostra pittrice, ella sceglie la geometria per dar vita a forme le quali – pur nella severità del loro ordine – non si allontanano mai da esso, anzi lo trasformano in suggestione, in piacere, in elemento scatenante afflati lirici (Wassili Kandiskij docet), Il suo disegno pulito, deciso e preciso, privo di ripensamenti, calcolato e che trova riscontro in tutte le altre discipline frequentate (l'incisione, la pittura, la scultura) a riprova di quello che non si ripeterà mai abbastanza e cioè che il disegno è il substrato di ogni possibilità di espressione visiva e che dunque sono poveri illusi coloro i quali pensano di poterne fare a meno; la sua pittura (a cominciare da quella monocromatica che è come un disegno trasferito nella dimensione dipinta) costruita con forme che non sono mai statiche, anche quando sembrano esserlo; la sua scultura, che è una materializzazione, una tridimensionalizzazione delle idee grafiche e dei portati pittorici propri. In tutta la sua valida, validissima, produzione si trova, pressoché sempre, la forma archetipale immersa in un bagno dinamico senza fine. Solo in qualche pausa dal rigore, le forme si avvicinano a quelle degli elementi naturali e diventano quasi fitomorfe. Nel senso però che il dato naturale di partenza, più che da modello ha agito da suggeritore del suo apparato morfologico fondante, del suo intimo sistema strutturale. Ma lo studio delle forme che la Donati pratica da sempre, fino a scandagliarle nelle loro più segrete regole che riesce a carpire e far proprie, non avrebbe senso compiuto, se non entrasse nella scena delle sue realizzazioni pittoriche e plastiche un altro elemento di primaria importanza: la luce. È quest'ultima che dà movimento alle forme, che le trae fuori dal loro iperuranio statico per immergerle nella fisicità di un dinamismo che le alleggerisce quasi fino smaterializzarle, rendendo di esse più la dimensione mnemonica – come se fossero percezioni di morfologie in corsa impresse nella retina – anziché quella reale. Forme, movimento, luce hanno, per la nostra artista, vari autorevoli ascendenti. Si chiamano: i già citati Malevìé e Tatlin (e con essi Naum Gabo e Anton Pevsner); Giacomo Balla, Victor Vasarely. Sulla sua formazione di pittrice e di scultrice incidono poi movimenti e idee dai nomi illustri: Futurismo, ovviamente, ma anche Costruttivismo e Suprematismo, un po' di Cubismo orfico, Raggismo, Arte Cinetica. Senza dimenticare, agli inizi del suo dire pittorico e in certe pause fitomorfiche che abbiamo già citato, quel gigante dell'arte del XX secolo che è stato Osvaldo Licini. Per finire col suo maestro ideale, Nino Ricci, un altro artista marchigiano, finissimo incisore e pittore, che ha tradotto il dato formale e geometrico in sottile e persistente atmosfera lirica. La citazione di tanti padri putativi non tragga in inganno: l'espressività della Donati non assomiglia ad alcuno di essi, nel senso che non risolve la sua ricchezza linguistica in un esito epigonico. Al contrario essa è originale, propria, in quanto portatrice di un quoziente lessicale inedito, derivato da una forte e personale sintesi dei suggerimenti desunti dai tanti e qualificati maestri internazionali a cui ha guardato e continua a guardare con interesse. Quegli autori, quei pensieri visivi che l'hanno resa capace di schierarsi con quanti, nel passato e nel presente, hanno saputo e sanno tirar via la morfologia geometrica dalla staticità muta per trasferirla nel campo dinamico dove si ha voce per recitare versi poetici. Da tutto ciò prende origine quello straordinario godimento che finisce per coinvolgere tutti, artista e fruitori, che si chiama piacere della forma.
FORMA E PERCEZIONE OTTICA. Nell'Ottobre del 1968, Marco Valsecchi pubblicò in un quotidiano del nord un articolo dal titolo "Il marchigiano solitario che anticipò la pop-art". Il marchigiano solitario tanto per non cambiare, era Osvaldo Licini e l'opera che aveva suggerito il presunto scoop del critico milanese è il dipinto Composizione linee nere e blu del 1935, attualmente esposto alla Civica Galleria d'Arte Contemporanea di Ascoli Piceno. Macroscopica svista quella del critico milanese, soprattutto perché quel motivo lenticolare, che sfalsa otticamente l'allineamento delle righe nere e blu, era apparso, tale e quale, nel 1924 in un tessuto disegnato da una protagonista del costruttivismo russo, Barbara Stepanova. Ora, a parte che nel corso di pittura del 1928 di Josef Albers al Bauhaus si rinvengono altri esempi di arte cinetica, se Valsecchi voleva dimostrare che, statisticamente per non dire storicamente, l'optical art era nata con Victor Vasarely negli anni '50, sarebbe facile gioco sostenere che motivi di arte cinetica sono presenti nei mosaici romani, sparsi un po' ovunque. Lo stesso opus reticulatum non è forse un esempio ante litteram dell'arte cinetica? Questa breve digressione iniziale ha il solo intento di stornare da Anna Donati il sospetto che i suoi dipinti, esposti in questa mostra, siano frutto di una calcolata assimilazione di esperienza altrui. In realtà, nella produzione artistica in generale, intesa diacronicamente, non c’è un prima e un “a seguire”, semmai un prima e un dopo, e tra quel prima e quel dopo c'è un enorme vuoto dove una pluralità di esperienze si sommano e un'altra pluralità si elideno e quel che rimane è come un canovaccio sul quale ciascuno imbastisce ciò che gli detta la mente e il sentimento (l'emozione). Nel caso della Donati è l'enigma della luce a fungere da propulsore della composizione pittorica, una luce filtrata da prismi cromatici, che formano una successione di punti focali, cioè punti di ancoraggio della percezione ottica. Poiché in questo genere di pittura la scienza s'intromette, condizionandola, nella pura espressione della speculazione artistica, potremo dire con Hjelmslev che il piano di denotazione diventa piano di connotazione. La Donati gioca su questa plusvalenza ottica le, elaborando di volta in volta forme che hanno la vibratilità delle scansioni (il tempo) di gradienti luministici, accanto a forme che meglio definiscono, plasticamente, il senso dello spazio.
Apporti critici di Carlo Melloni, Stefano Papetti e Nino Ricci, hanno posto in rilievo l'attività di Anna Donati, una pittrice che dopo gli anni di studio presso l'Accademia di Belle Arti di Macerata, tesa a conquistare una libertà creativa, ha esemplato con vigore le sue conquiste, indirizzandosi verso la più viva cultura contemporanea. Determinante, è stato per lei, l'insegnamento di Nino Ricci, un artista animato da una lirica intensità espressiva, ben noto anche per le sue incisioni. Nella apparente semplicità delle sue creazioni, la Donati tende a collegare ordine, armonia, proporzione, che sono, secondo George Weise, le caratteristiche peculiari della bellezza, non dimenticando le acquisizioni dei maggiori teorici della “prospectiva pingendi”. Nella sua ricerca complessa e avvertito l'esecuzione riflette una concezione severa del mestiere. Forme primarie, esatte, di continuo nuove, composte con lucida razionalità, si snodano ritmicamente animate da una via cinetica, sono sospese o ruotano nello spazio, avvalendosi di variazioni cromatiche mutevoli, ora intense come smalti di matrice mediterranea, ora dagli accordi delicati. Gli intendimenti che animano le sue figurazioni, si richiamano alle compenetrazioni iridescenti di Giacomo Balla, ai rilievi di Sofia Tauber Arp, alle assorte composizioni di Max Bill, alle musicali modulazioni optical di Vietor Vasarely. Di rilievo anche le incisioni su vetro, un medium oggi in parte desueto, particolarmente caro a Jean Baptiste Corot. Nell'attenta disamina dei suoi raggiungi menti, ricordiamo che, Atanasio Soldati, in occasione della sua personale presso la Galleria del Milione di Milano, nel marzo 1935, scriveva: "I tempi iniziali di tutte le arti sono i più ricchi. Ogni linea, come ogni forma, è un miracolo ma le percezioni dell'artista sono più preziose che le descrizioni più fedeli della realtà. Per noi l'arte è questione di spiriti: solo lo spirito riconosce lo spirito. La fine dell'arte è imitare la natura".