Cavalli e Cavalieri: una breve trattazione sulle sculture di Marino Marini

21 Giugno 2021 Redazione A&S 5035

NELLA FOTO: I CAVALLI ED I CAVALIERI DI MARINO MARINI.

Vastissima è la bibliografia dedicata allo scultore Marino Marini, e lo si può evincere dai cataloghi delle sue mostre (personali, antologiche e collettive) e dalle pubblicazioni dei suoi pensieri ed interviste.

Molti artisti si sono misurati con questo grande artista, uno di questi è stato Augusto Perez che si formò con Emilio Greco ma s’ispirò tantissimo in particolar modo ai primi lavori di Marini. Il paradosso, però, è che di fronte a tale numero di pubblicazioni, mancano studi critici sulla sua opera: la nota pubblicazione dal titolo Marino Marini. Catalogo ragionato della scultura (pubblicata nel 2002 e curata da Giovanni Carandente), risulta purtroppo lacunosa poiché riporta solo in maniera parziale la bibliografia delle opere di Marini, la cui datazione risulta imprecisa.

Del primo Cavaliere, ad esempio, si conoscono tre versioni: il gesso del 1936 (esposto alla Biennale di Venezia dello stesso anno), la successiva fusione in bronzo del 1936 (ora nella Art Gallery of New Sowth Wales di Sydney) e una versione in legno policromo del 1936-37 (ora nella Collezione d’Arte Religiosa Moderna dei Musei Vaticani a Roma). Il suddetto catalogo ragionato non fa riferimento però alla versione in gesso del primo Cavaliere esposta alla Biennale di Venezia del 1936, particolare non proprio irrilevante poiché si trattò della prima presentazione al pubblico del primo esemplare della serie dei cavalli e cavalieri che suscitò svariate discussioni negli anni successivi.

Nel catalogo ragionato è stato inoltre riscontrato un errore della datazione de L’Angelo della Città, opera rilevante nella produzione di Marini: il catalogo riferisce che esistono due esemplari in bronzo, quello presente nella Peggy Guggenheim Collection di Venezia ed uno in una collezione privata. La data riportata per l’esemplare posseduto da Peggy Guggenheim (1949-50) è scorretta, poiché la stessa collezionista statunitense afferma nella sua biografia che si recò a Milano nel 1949 per prendere in prestito un’opera di Marino Marini da esporre nella mostra che aveva programmato per l’autunno dello stesso anno. Arrivata nello studio, la Guggenheim finì per comprare l’unica opera disponibile: «Era la statua di un cavallo e di un cavaliere, quest’ultimo con le braccia aperte in estasi e per sottolineare ciò Marino aveva aggiunto un fallo in piena erezione. Ma quando l’aveva fatto fondere in bronzo, aveva fatto fare separatamente il fallo, in modo che potesse essere avvitato o svitato a piacimento. Marini sistemò la scultura nel mio cortile sul Canal Grande, di fronte alla Prefettura, e lo chiamò L’angelo della Cittadella.»

In una recente ricostruzione della mostra allestita a Palazzo Venier dei Leoni nel 1949 (a cura di Sileno Salvagnini) è emerso però che la collezionista d’arte statunitense Peggy Guggenheim fosse già in possesso dell’opera nel ferragosto del 1949. Sono dunque da mettere in dubbio tutte le date delle opere simili a L’Angelo della Città, e capire se si trattano di studi oppure opere indipendenti. Una fonte preziosa per comprendere questo, potrebbe essere la biografia di Mercedes Pedrazzini, moglie dello scultore, conosciuta poi come Marina Marini. Pubblicata nel 1991, la biografia della Pedrazzini sembra purtroppo omettere delle informazioni importanti, trattando troppo brevemente degli anni trascorsi a Locarno (Svizzera), quando lei e suo marito si rifugiarono lì tra il 1942 ed il 1946 per scappare dalla guerra. Furono anni molto importanti per Marini dove poté osservare in presa diretta l’innovativo linguaggio plastico delle sculture di Giacometti e Richier, artisti che frequentava spesso.

Sono brevi i riferimenti all'intensa amicizia tra Marini e Moore, rapporto iniziato quando si conobbero nel 1948 alla Biennale di Venezia. Ugualmente brevi i ricordi dei mesi trascorsi a New York, quando Marini vi soggiornò insieme alla moglie in occasione dell’inaugurazione della sua personale da Curt Valentin nel 1950: erano gli anni in cui si stava affermando l’espressionismo astratto e la città di New York stava diventando la capitale mondiale dell’arte. Dunque, ci sono in merito pochi studi di riferimento.

Nino Bertocchi, nel 1937, dalle pagine del Popolo d’Italia, commentava in maniera polemica l'articolo di Paul Fierens su Marino Marini, ritenendo superficiale e frettolosa la sua indagine sul sistema di riferimenti visivi e citazioni presenti nelle sculture mariniane, invitandolo a procedere con cautela nella matassa delle famose “influenze”.

L’articolo di Bertocchi riassumeva in maniera efficace gli elementi già in possesso dalla critica italiana sulla produzione dello scultore, in particolare sulle “influenze”: era evidente che i rimandi visivi all’arte antica e contemporanea fossero lasciati da Marini deliberatamente riconoscibili e sfruttati come soluzioni tecniche. Questo fu ribadito da Lamberto Vitali nella prima monografia dedicata allo scultore (edita da Hoepli nel 1937): l’avvicinamento nel periodo giovanile a Medardo Rosso era sfociato nell’appropriazione di una tecnica applicata a sculture orientate nella direzione opposta a quelle di Rosso. Lamberto Vitali sottolinea come Marini, per raggiungere una scultura anti-impressionista e regolata da precise leggi architettoniche, avesse fatto ricorso alla scultura egizia ed antica, cioè a fonti visive colte che di certo non potevano essere definite solo “influenze”, come invece aveva fatto Bertocchi. Semmai, come affermò il critico Raffaello Giolli, si poteva parlare di “tentazioni”, quelle provate da Marini quando nei musei ammirava le sculture etrusche e romane ma senza lasciarsi influenzare.

In linea di massima, possiamo affermare che, nella serie dei cavalli e dei cavalieri, lo scultore si mosse in due direzioni. La prima direzione, vide Marino Marini confrontarsi, molto spesso in maniera dissacrante, con il sistema delle arti italiane; questo fase iniziò nel 1936 alla Biennale di Venezia con il primo cavaliere e terminò con la fine del secondo conflitto. La seconda direzione, vide invece Marini assimilare i linguaggi plastici alla moda per entrare a far parte della scena artistica internazionale; questa fase cominciò con il dopoguerra e proseguì per tutti gli anni Cinquanta.

Concludendo, il Cavaliere del 1936 fu una esplicita dichiarazione di "guerra": Marini proponeva un cavaliere anti-mitico in palese contrasto con i virili e muscolosi nudi atletici che la maggior parte degli scultori italiani di quegli anni realizzava. Del resto, nel 1936, Marino Marini era già uno scultore altamente formato, e quindi capace di distinguere le voghe del momento per stravolgerle a suo piacimento e lasciare il pubblico disorientato.

Giovanni Cardone

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Ultimo aggiornamento: 11/08/2021, 20:01