Mattia Moreni e le sue litografie del Bisonte: il testo critico di Luca Maggio

3 Dicembre 2020 Redazione A&S 4110

NELLA FOTO: FOTO DEL TESTO CRITICO DI LUCA MAGGIO SULLA MOSTRA DEDICATA A MATTIA MORENI.

La redazione di Arte & Società vi propone in esclusiva un interessante testo critico a firma di Luca Maggio scritto in occasione della mostra 'Mattia Moreni. Le litografie del Bisonte, Firenze 1960', esposizione d'arte – da lui curata insieme a Roberto Pagnani – che avrà luogo dal 9 al 20 Dicembre 2020 presso lo spazio espositivo Pallavicini 22 Art Gallery di Ravenna. Durante la mostra, che celebra il centenario della nascita di Mattia Moreni (1920-2020), sarà disponibile un pieghevole numerato contenente il presente testo critico.

Testo critico della mostra "Mattia Moreni. Le litografie del Bisonte, Firenze 1960"

Fra l’Agosto e il Settembre del 1960, Mattia Moreni, quasi quarantenne e già al culmine di una carriera straordinaria con successi internazionali fra Parigi, San Paolo del Brasile, documenta a Kassell e diverse Biennali veneziane, si trova a Firenze, in viale Milton 25, presso la prima sede delle Edizioni d’Arte il Bisonte, stamperia nata l’anno precedente grazie al coraggio e alla volontà di Maria Luigia Guaita, con i torchi dell’Istituto Geografico Militare trovati dal pittore e incisore Rodolfo Margheri, collaboratore storico del laboratorio e curatore anche della presente cartella di sei litografie moreniane, tirate in cento esemplari, provenienti dalla collezione Ghigi-Pagnani.

Poco per volta ridiventeranno
paesaggi, uomini, nuvole od altro...

Mattia Moreni - Firenze, Settembre 1960

Su una settima, in realtà introduttiva, compare il corsivo qui in esergo, un verso dal carattere quasi esiodeo (Dunque, per primo fu Chaos, e poi / Gaia dall’ampio petto...[1]), come se il “poeta” Moreni ricorrendo al segno certo della scrittura volesse dare indicazioni di decifrazione della gestualità segnica primordiale, apparentemente disordinata, del pittore Moreni, massimo fra i rappresentanti dell’Informale europeo all’apice dell’epoca.

Si passa così alle sei composizioni o scomposizioni dagli sfondi colorati in marrone-beige, giallo-ocra, arancione, grigio, sulle quali appaiono le strutture naturali sgorgate dall’artista, incandescenze terrestri e padane, secolarmente nervose e anticlassiche – da Wiligelmo a Vitale da Bologna al Foppa, dai ferraresi quattrocenteschi all’Aspertini, da Caravaggio a Moreni stesso –, passaggi di neri in paesaggi, come aveva ben inquadrato Arcangeli con la definizione di “ultimi naturalisti” per alcuni pittori della metà del secolo scorso – fra i quali appunto Moreni, Morlotti, Mandelli, Bendini, Vacchi, Romiti –, intendendo il groviglio inestricabile di vita-morte-vita così evidente nel nostro, nulla mai autore dal pessimismo facile, né nichilista, persino nelle disperazioni cariche e acide cromaticamente, post-barocche e dada, di bamboli e umanoidi degli anni ultimi, ’80 e ’90, sebbene figli delle vedute spazzate e spezzate da venti e pennelli come aratri e rastrelli degli anni ’50 e primi ’60: alfine, partito da terre e cieli e poi angurie vaginali, approda alla completa sembianza facciale umana, paesaggio estremo da indagare, con elettrodi e microchip incistati nella carne e ossessivi ripetuti “perché”, quasi urla scritte sui limiti dell’arbitrio umano, la piccola cosa chiamata “io” rispetto alle necessità della specie, e dichiarazioni d’età sugli autoritratti – 18, 82, 66, 25 anni – del tutto non attinenti accanto al faccione sghembo, da vecchione che senza sconti rinuncia a, e annuncia l’assenza di significato del tempo, tanto più se umano, a fiato cortissimo, rispetto al corso universale delle cose: La durezza è il dono più grande per l’artista, durezza contro sé stessi e contro la propria opera.[2]

Privo di infingimenti, del resto, Moreni è sempre stato, anche nel lavoro accuratissimo delle nostre litografie dove graffi e spiragli in primo piano paiono retroilluminati dal colore uniforme del fondale che quasi essi desiderano coprire nel loro avanzare-emergere-calare con accensioni improvvise e spegnimenti, incontri e conflitti fitti di raggi, nuvolaglie basaltiche e frante, frenate sull’asfalto teorico del fondo che ancora riaccende i neri alla ribalta nel teatro apparito delle viscere di paesaggio moreniano, nel farsi sfarinarsi dei gesti che compiono il fuoco dell’immagine attraverso la grazia della violenza naturale, tutto comprendendo e compenetrandosi, bozze di terra – zolle rotte – e ipotesi di cirri in metamorfosi di strisce e filamenti cellulari, parvenze entomologiche e ombre zoomorfe, canine, sterpaglie bruciate e porzioni di colline rastremate, piccolo e grande contemporaneamente, impronte di gusci e bave di gasteropodi sulle trame striate di accumuli e sovrapposizioni pur nell’equilibrio – autentica sprezzatura alla Castiglione – delle masse crivellate e mai piene.

Ciò che qui si fa vivo non è blocco uniforme né inerte, anzi architettura di tempeste pulsanti e non definitive, rette incidenti, oblique spesso nel corpo d’insieme, il cataplasma centrale sferzato, quasi squarciato, da venti o eventi ignoti, coreografia lirica a modo suo, ricordando lo Stockhausen di Kontra-Punkte (1953) e ancor più del coevo Kontakte (1960), panorama sonoro in cui con pochi strumenti il compositore ha ottenuto varietà inedite di moti e attriti e causticità come risalenti da abissi inesplorati.

Restano fissate queste agitazioni innanzi al nostro vedere, sfidando gli interrogativi e le alternative di soluzione su come e perché – esiste un senso? – sia possibile che la danza probabilistica e sub-atomica delle particelle in relazione produca caos fertile, ciò che poi ha nome forma realtà visione, sino al pensiero stesso che, sosteneva Platone nel Teeteto, non è altro che un discorso che l’anima intesse con sé stessa sulla base di ciò che sente e vede intorno a sé.[3]

Moreni amava la forza feroce della natura, né bonaria o malvagia, e l’ha restituita per una vita con energia sontuosa, spietatamente, riflettendo sull’inarrestabilità del decadere-rinascere, di cui rendono testimonianza chiara le litografie del Bisonte oggi qui integralmente esposte.

Luca Maggio

 


[1] Esiodo, Teogonia, vv. 116-117, in Opere, a cura di G. Arrighetti, Mondadori, Milano 2007, p. 9.

[2] G. Benn, Invecchiare: problema per artisti, in Lo smalto sul nulla, Adelphi, Milano 1992, p. 333.

[3] A. Marcolongo, Alla fonte delle parole, GEDI, Roma 2020, p. 276.

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Ultimo aggiornamento: 03/12/2020, 14:51